«Voglio
sapere cosa mi ha provocato nel sangue e come me lo vogliono sapere
tutti i cittadini del collegnese». E’ questa la domanda pressante che
Piergiorgio Boscagin, presidente del
circolo “Perla Blu” di Cologna e uno dei portavoce del coordinamento
Acqua Libera dai Pfas,
rivolge alle istituzioni. È preoccupato, arrabbiato,
battagliero. Mercoledì sono stati resi noti i dati parziali sul
biomonitoraggio umano a seguito della contaminazione da
pfas nelle provincie di Vicenza, Verona e Padova, e come ampiamente preventivato da Legambiente e dal coordinamento, il sangue dei cittadini testati presenta
tracce di sostanze perfluoroalchiliche molto superiori al sangue dei soggetti residenti al di fuori delle zone contaminate.
Il coinvolgimento di
350 mila abitanti e 30 comuni
sono le dimensioni che nel Veneto ha già assunto il problema
dell’inquinamento da Pfas e purtroppo sono dati che sono destinati a
crescere in quanto l’inquinamento della falda acquifera sta aumentando e
coinvolgendo un territorio sempre più vasto. Per quanto riguarda il
territorio scaligero,
Acque Veronesi gestisce nell’area interessata da tale presenza l’
acquedotto di Almisano-Lonigo,
l’impianto che effettua l’emungimento da falda profonda e il
trattamento di parte della portata e della fornitura alla rete
acquedottistica dell’area in gestione (Arcole, Veronella, Zimella,
Albaredo d’Adige, Cologna Veneta, Bonavigo, Minerbe, Pressana, Roveredo
di Guà, Legnago, Boschi Sant’Anna, Bevilacqua e Terrazzo).
«Facciamo notare», dice Boscagin, «che dall’indagine avviata dalla Regione Veneto
mancano ancora i dati relativi ai 120 soggetti probabilmente più esposti
al problema, vale a dire gli operatori e i residenti di aziende
zootecniche. Ce la siamo trovata nell’acqua, poi negli alimenti. Era
dunque molto probabile», insiste Boscagin, «che ci fosse anche nel
sangue. La situazione appare critica e urge al più presto uno studio
approfondito anche nelle
altre zone del Veronese e del Padovano che a tutt’oggi risultano escluse dal biomonitoraggio,
così come risulta urgente lo studio sulle matrici alimentari, che già
nel campionamento fatto in precedenza presentava dati preoccupanti nel
10% dei campioni analizzati». Boscagin chiede l’
immediata richiesta dell’indagine epidemiologica su tutta la popolazione
come è avvenuto negli Stati Uniti. «Solo che lì l’episodio era di
dimensioni più piccole. Eppure su 70 mila persone esposte al fenomeno,
sono state eseguite 69 mila analisi. Se pensiamo ai nostri numeri (350
mila ndr.) questo dà la dimensione
di che razza di disastro dobbiamo affrontare.
Riteniamo sia assolutamente necessario adottare immediatamente misure
straordinarie per la protezione delle fasce di popolazione più debole,
bambini donne incinte e malati».
La seconda richiesta immediata alle istituzioni è quella relativa agli
acquedotti. «Qui bisogna trovare fonti alternative, peraltro già individuate da Acque Veronesi. L’ha detto anche Berton (
Francesco Berton
il direttore dell’azienda veronese, ndr) che ha parlato di nuovi
impianti a Caldiero, Zevio e Verona Est. Così è fondamentale trovare al
più presto
fonti alternative per gli acquedotti inquinati,
visto che anche l’Istituto Superiore di Sanità individua come causa
principale della presenza di sostanze perfluoroalchiliche nel siero
umano l’uso prolungato dell’acqua contaminata dalla presenza dei
pfas». Va ricordato che a scopo preventivo Acque Veronesi ha adottato
una serie di
contromisure, aumentando la frequenza
della sostituzione di carboni attivi e avviando diverse sperimentazioni.
Inoltre, per la risoluzione della fase di emergenza è stato inviato
alla Regione Veneto un progetto di ampliamento del comparto di accumulo e
potabilizzazione dell’impianto di Lonigo, con un costo previsto di
oltre
2,8 milioni. Ad oggi, Acque Veronesi ha sostenuto costi di prima gestione dell’emergenza per
oltre 700 mila euro
ed altrettanti dovranno essere sborsati per interventi a breve termine.
Tutto questo pone un problema economico, che come gli stessi
ambientalisti riconoscono
rischi di ricadere sull’agricoltura.
È pacifico per i cittadini del colognese che i danni li deve pagare chi
ha inquinato. «Serve un’azione comune», diche Boscagin «con i sindaci e
le associazioni di categoria, perché
sennò chi inquina non paga mai».
Sul territorio veronese prosegue da parte del comitato la raccolta di firme lanciata da Legambiente che ha raggiunto finora
8 mila adesioni. Cosa si chiede? Primo: un
limite ai limiti,
perché ad oggi in Italia non esiste una legga che definisca i limiti
consentiti dei valori di Pfas nelle acque, ma solo valori guida non
vincolanti. «Chiediamo une legge – dice Boscagin – che ponga limiti ai
Pfas nelle falde e limiti allo scarico che siano uniformati ai valori
più restrittivi vigenti.
Per noi è zero! Serve confrontarsi con i limiti dei valori imposti dagli americani». Secondo:
acquedotti liberi da Pfas.
«Chiediamo», conclude Boscagin, «che gli acquedotti contaminati vengano
allacciati a fonti di approvvigionamento non inquinate». Oltre l’acqua
dell’acquedotto sono stati anche inquinati pozzi privati ai quali molte
famiglie attingono per usi alimentari e irrigui il cui uso ora è stato
vietato. Per il coordinamento non ci sono dubbi: ribadisce che «chi ha
provocato e permesso tale disastro ambientale dev’essere
perseguito in ogni sede, sia penale che civile».
(ph: Nicola Pasotto per Diennefoto)