Pfas, il biologo: diluizione con l’Adige? Inaccettabile
Il professore padovano Tamino boccia la soluzione accarezzata da Zaia: «no ai colpi di spugna. Chi sbaglia deve pagare»
«Non possiamo transigere dal criterio per cui chi ha inquinato paga.
È un principio sancito dalle norme italiane e da quelle europee, anche
se i responsabili si trincerano troppo spesso dietro società fittizie,
scatole cinesi, fallimenti pilotati ed intermediari di comodo. Chi
compra si assume la responsabilità o ci si rivale su chi ha inquinato in
passato». Non ha dubbi Gianni Tamino nel contestare, seppure indirettamente, la linea della giunta regionale veneta che per gestire l’emergenza pfas chiede fondi allo Stato.
Tanto che chi lo conosce sa che in questo senso il professore
universitario, già docente a Padova di biologia e fondamenti di diritto
ambientale, un luminare in materia, non è mai arretrato di un millimetro
rispetto al convincimento per cui “chi rompe paga e i cocci sono suoi”.
Così quando recentemente la giunta Zaia ha reso noti i dati preliminari sull’inquinamento da sostanze Pfas per il cosiddetto affaire Miteni, la notizia, l’ennesima in una regione martoriata dai veleni (come rammenta sul Corveneto il sociologo Massimiano Bucchi, non ha preso alla sprovvista l’accademico patavino). Per di più la Miteni di Trissino, che poi è lo stabilimento chimico che è considerato il maggior responsabile della contaminazione da pfas (noti anche come perfluorati alchilici), è da decenni un osservato speciale. Quando l’azienda si chiamava ancora Rimar ed era una delle imprese della famiglia Marzotto «la fabbrica – ricorda Tamino – fu responsabile di una caso di inquinamento da Trifluralin, un diserbante in qualche modo precursore dei pfas, che obbligò gli abitanti di Sovizzo ad usare per lungo tempo l’acqua delle autobotti ai fini potabili. La cosa interessante è che all’epoca gli inquinanti seguirono la stessa direttrice che hanno seguito nel caso dei perfluorati. Ovvero partenza dalla valle dell’Agno fino alle porte di Vicenza per un verso. E poi giù lungo il corso dell’Agno-Fratta per l’altro. Erano la fine degli anni Settanta e mi occupai direttamente della cosa».
Cosa è cambiato nel frattempo? «Purtroppo – rimarca il docente – in Italia e nel Veneto stiamo ancora patendo l’inquinamento degli anni ’60 e ’70. Cui vanno sommati i fattori di stress ambientale più recente. In diversi casi si è proceduto con una semplice messa in sicurezza. Le bonifiche vere e proprie sono al di là da venire. Per quanto concerne i pfas poiché questi sono entrati nella catena alimentare bisogna fare in modo che le aree, i vegetali o gli animali inquinati rimangano il più possibile contenuti». Non c’é solo la Miteni: va considerato l’impatto di imprese chimiche a Lonigo e a Montecchio che sono dotate di una sorta di inceneritori. «Di più, ci siamo accorti che i pfas sono immessi nel ciclo idrico anche dai depuratori, anche se in quantità ben minore che dal sito trissinese». Infine ci sono le concerie a cui «per anni sono stati consentiti scarichi in deroga alle leggi». Per il prof i tempi sono maturi perché ogni stabilimento «si doti di un sistema continuo di controllo non manomissibile dei reflui e della loro incidenza sull’acque. Una centralina che invii i dati alle autorità preposte e che non sia bypassabile. Detto in altri termini – ed è questa la sfida che Tamino lancia agli industriali – da una determinata fabbrica deve uscire acqua in modo tale che la stessa sia riutilizzabile dal medesimo impianto. Cosicché l’acqua prelevata sia solo quella che si perde nella fase di lavorazione. Solo così le industrie saranno costrette a pulirla davvero».
Frattanto però c’è chi come Luciano Zampicinini, presidente del consorzio Leb (ovvero il consorzio che gestisce l’omonimo canale irriguo che alimentato dall’Adige serve bassa Veronese, Ovest Vicentino e bassa Padovana e che connette anche l’Adige al sistema dell’Agno-Guà-Fratta), ha dichiarato al Giornale di Vicenza del 25 aprile che la contaminazione da Pfas potrebbe essere contrastata aumentando la quantità di acqua immessa dall’Adige «negli scoli irrigui connessi». Una diluizione, la cui idea di fondo viene accarezzata anche dall’esecutivo Zaia, che sta facendo storcere il naso ad un pezzo del mondo ambientalista. Lo stesso approccio peraltro venne seguito quando si usarono le acque dell’Adige per diluire i reflui conciari convogliati dall’Arzignanese fino a Cologna Veneta. Una pratica duramente contestata negli anni, tra gli altri, da Legambiente.
Tamino liquida la proposta come «inapplicabile perché illegale. E soprattutto – puntualizza lo studioso – è un modo inaccettabile per non affrontare il problema alla radice. È come dire a chi inquina continua pure a farlo che poi ripuliamo. Ma di che cosa stiamo parlando?». Non a caso il professore si dice «assolutamente contrario a questa opzione» ed invita «a non porre come al solito il dilemma ingannevole della guerra tra poveri che ci obbliga a scegliere tra lavoro da una parte e salute ed ambiente dall’altra giacché si tratta di questioni tutte importanti».
Riflessione finale: «Alla lunga lavorando nel rispetto dell’ambiente porta lavoro e benessere. Ci hanno fatto credere negli ultimi quarant’anni che il progresso così come lo abbiamo conosciuto era l’unico totem possibile. La vita è sempre migliorata è stato il solito mantra. In queste ore apprendiamo che l’aspettativa di vita degli italiani per la prima volta è peggiorata. Questo significa che è meglio spendere le risorse prima per non gravare poi sui costi della sanità e della collettività. Alla fine – sottolinea Tamino – è una questione di cultura. Dopo il caso Ilva se ne sta rendendo conto anche il sindacato che in passato aveva avuto un approccio ben diverso».
Così quando recentemente la giunta Zaia ha reso noti i dati preliminari sull’inquinamento da sostanze Pfas per il cosiddetto affaire Miteni, la notizia, l’ennesima in una regione martoriata dai veleni (come rammenta sul Corveneto il sociologo Massimiano Bucchi, non ha preso alla sprovvista l’accademico patavino). Per di più la Miteni di Trissino, che poi è lo stabilimento chimico che è considerato il maggior responsabile della contaminazione da pfas (noti anche come perfluorati alchilici), è da decenni un osservato speciale. Quando l’azienda si chiamava ancora Rimar ed era una delle imprese della famiglia Marzotto «la fabbrica – ricorda Tamino – fu responsabile di una caso di inquinamento da Trifluralin, un diserbante in qualche modo precursore dei pfas, che obbligò gli abitanti di Sovizzo ad usare per lungo tempo l’acqua delle autobotti ai fini potabili. La cosa interessante è che all’epoca gli inquinanti seguirono la stessa direttrice che hanno seguito nel caso dei perfluorati. Ovvero partenza dalla valle dell’Agno fino alle porte di Vicenza per un verso. E poi giù lungo il corso dell’Agno-Fratta per l’altro. Erano la fine degli anni Settanta e mi occupai direttamente della cosa».
Cosa è cambiato nel frattempo? «Purtroppo – rimarca il docente – in Italia e nel Veneto stiamo ancora patendo l’inquinamento degli anni ’60 e ’70. Cui vanno sommati i fattori di stress ambientale più recente. In diversi casi si è proceduto con una semplice messa in sicurezza. Le bonifiche vere e proprie sono al di là da venire. Per quanto concerne i pfas poiché questi sono entrati nella catena alimentare bisogna fare in modo che le aree, i vegetali o gli animali inquinati rimangano il più possibile contenuti». Non c’é solo la Miteni: va considerato l’impatto di imprese chimiche a Lonigo e a Montecchio che sono dotate di una sorta di inceneritori. «Di più, ci siamo accorti che i pfas sono immessi nel ciclo idrico anche dai depuratori, anche se in quantità ben minore che dal sito trissinese». Infine ci sono le concerie a cui «per anni sono stati consentiti scarichi in deroga alle leggi». Per il prof i tempi sono maturi perché ogni stabilimento «si doti di un sistema continuo di controllo non manomissibile dei reflui e della loro incidenza sull’acque. Una centralina che invii i dati alle autorità preposte e che non sia bypassabile. Detto in altri termini – ed è questa la sfida che Tamino lancia agli industriali – da una determinata fabbrica deve uscire acqua in modo tale che la stessa sia riutilizzabile dal medesimo impianto. Cosicché l’acqua prelevata sia solo quella che si perde nella fase di lavorazione. Solo così le industrie saranno costrette a pulirla davvero».
Frattanto però c’è chi come Luciano Zampicinini, presidente del consorzio Leb (ovvero il consorzio che gestisce l’omonimo canale irriguo che alimentato dall’Adige serve bassa Veronese, Ovest Vicentino e bassa Padovana e che connette anche l’Adige al sistema dell’Agno-Guà-Fratta), ha dichiarato al Giornale di Vicenza del 25 aprile che la contaminazione da Pfas potrebbe essere contrastata aumentando la quantità di acqua immessa dall’Adige «negli scoli irrigui connessi». Una diluizione, la cui idea di fondo viene accarezzata anche dall’esecutivo Zaia, che sta facendo storcere il naso ad un pezzo del mondo ambientalista. Lo stesso approccio peraltro venne seguito quando si usarono le acque dell’Adige per diluire i reflui conciari convogliati dall’Arzignanese fino a Cologna Veneta. Una pratica duramente contestata negli anni, tra gli altri, da Legambiente.
Tamino liquida la proposta come «inapplicabile perché illegale. E soprattutto – puntualizza lo studioso – è un modo inaccettabile per non affrontare il problema alla radice. È come dire a chi inquina continua pure a farlo che poi ripuliamo. Ma di che cosa stiamo parlando?». Non a caso il professore si dice «assolutamente contrario a questa opzione» ed invita «a non porre come al solito il dilemma ingannevole della guerra tra poveri che ci obbliga a scegliere tra lavoro da una parte e salute ed ambiente dall’altra giacché si tratta di questioni tutte importanti».
Riflessione finale: «Alla lunga lavorando nel rispetto dell’ambiente porta lavoro e benessere. Ci hanno fatto credere negli ultimi quarant’anni che il progresso così come lo abbiamo conosciuto era l’unico totem possibile. La vita è sempre migliorata è stato il solito mantra. In queste ore apprendiamo che l’aspettativa di vita degli italiani per la prima volta è peggiorata. Questo significa che è meglio spendere le risorse prima per non gravare poi sui costi della sanità e della collettività. Alla fine – sottolinea Tamino – è una questione di cultura. Dopo il caso Ilva se ne sta rendendo conto anche il sindacato che in passato aveva avuto un approccio ben diverso».
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