I dati prodotti dallo studio sui Pfas in
varie matrici alimentari presentati alla stampa il 16 novembre scorso
forniscono spunti di approfondimento per la contaminazione ambientale
dei suoli agricoli, e per l’apporto di Pfoa da parte di alimenti solidi,
di origine animale. Tali elementi non sembra siano stati adeguatamente
considerati fino ad ora, dove l’attenzione è stata fondamentalmente
rivolta al ruolo delle acque potabili, e all’adozione dei sistemi di
depurazione adeguati.
Premessa
La
presentazione alla stampa dei risultati analitici
su 12 Pfas riscontrati nella cosiddetta area rossa in varie matrici di
interesse alimentare è oggetto di grande interesse, specie se correlata
alla conoscenza resa disponibile sulla contaminazione della falda da
parte di Arpa Veneto, nel corso della
Summer School Assoarpa di Cagliari 27-29 settembre,
e più recentemente dalla Regione Veneto e dall’Istituto Superiore di
sanità per quanto riguarda lo studio di biomonitoraggio, con particolare
riferimento ai residenti nelle area della ex Asl 5 e 6, e
indipendentemente dalle Asl ex 5 e 6, nel gruppo di
allevatori/agricoltori, nel corso del
Convegno nazionale “Ambiente e salute” a Bologna, il 7 e 8 novembre scorso.
Per dare alcune chiavi di lettura dei dati alimentari, sembra opportuno sintetizzare quanto partecipato a Cagliari e a Bologna.
I dati ambientali
A Cagliari Arpa Veneto ha definito
in modo tridimensionale e geo-referenziato la contaminazione da Pfas
nella falda associata alla pressione industriale della ditta Miteni, e
il suo andamento sotterraneo e poi sorgivo. Rispetto all’andamento di
tale falda e alla modellizzazione delle dispersioni, tenendo in
considerazione i differenti flussi delle acque sotterranee e
superficiali,
la contaminazione da Pfas rilevata sul territorio è
molto più estesa rispetto alla proiezione sulla superficie della area
di falda: ciò viene principalmente attribuito ad attività antropiche
legate all’agricoltura (irrigazione, fertilizzazione), e alla probabile
presenza di altre sorgenti di contaminazione, che ancora non si conosce
se siano legate all’attività di produzione dei Pfas. La
contaminazione ambientale viene considerata di difficile rimozione, per
cui si presume che il problema sarà presente per vari decenni, data la
compromissione dell’acquifero indifferenziato, che ha uno spessore di
circa 150 metri di ghiaia nella zona “critica”.
Il biomonitoraggio umano
A Bologna, l’illustrazione dei dati di biomonitoraggio ha restituito informazioni sulla
presenza
significativa di Pfoa nel siero delle persone appartenenti alla zona
rossa–esposti, rispetto agli individui delle zone di controllo, con
significative differenze nei livelli tra persone appartenenti all’Asl ex
5, alla ex 6, e nel gruppo di allevatori, appartenenti alla cosiddetta
area rossa. Gli indicatori statistici evidenziano che il carico
corporeo di Pfoa in Asl ex 5 è tra i più alti descritti nella
letteratura internazionale in casi analoghi (vedi studio C8
Ohio/Virginia) e risulta di un fattore 4-5 più elevato di quello
presente in Asl 6, che a sua volta differisce significativamente da
quello dei gruppi di controllo–non area rossa. In questo contesto, il
gruppo di allevatori, indipendentemente dall’appartenenza all’Asl ex 5 o
6, mostra livelli mediani più elevati rispetto al gruppo Asl 5. Questo
dato è stato interpretato con la presenza di fattori addizionali
all’esposizione a Pfoa rispetto all’acqua, che dalle schede sulle
abitudini alimentari raccolte si associa al consumo di vegetali prodotti
in loco (cereali, frutta) e di alimenti di origine animale.
I dati alimentari: campionamento ed analisi
Alla luce di questa premessa, i dati scientifici sulla contaminazione
degli alimenti presentati il 16 novembre in conferenza stampa possono
essere letti in modo aggregato nel seguente modo,
in attesa di una più puntuale ed aperta disponibilità del dato grezzo, di come sia stato prodotto, e di come sia stato elaborato.
La rappresentatività dei campioni si evince calcolata sulla base di
una assunta distribuzione binomiale delle frequenze di contaminazione e
della relativa deviazione standard: “Per le matrici non considerate nel
precedente campionamento, la numerosità campionaria è stata determinata
con lo scopo di stimare la contaminazione media con una precisione pari
al 25% della deviazione standard in valore assoluto e una confidenza del
95%”. Tale approccio non è consueto per i contaminanti ambientali
persistenti, in cui i descrittori statistici da prendere in
considerazione sono oltre la media (meglio geometrica), la mediana e i
vari percentili/interquartili, in virtù delle distribuzione di frequenza
asimmetriche, e nel caso, la deviazione assoluta intorno alla mediana.
Tali frequenze di distribuzione poi risultano molto differenti tra
alimento e alimento, e con profonde differenze ad esempio tra Pfos e
Pfoa nelle matrici animali e vegetali. Questo può avere portato ad una
riduzione del numero di campioni, numerosità richiesta per descrivere in
modo robusto le alte contaminazioni (alti percentili), che sono
estremamente utili per capire sia i dati di biomonitoraggio nel gruppo
“allevatori”, sia la presenza di possibili fonti di inquinamento
secondarie, segnalato da Arpaveneto.
Il campionamento diretto degli alimenti consumati da tale
gruppo allevatori sarebbe probabilmente stato la via maestra, in un
quadro di one health, e avrebbe dato peso alle evidenze già acquisite e in parte ovviato alle ristrette numerosità campionarie considerate.
In particolare, appaiono oltremodo
critiche le numerosità campionarie per la verdura in foglia, da ritenersi più suscettibile per la contaminazione a Pfas a corta catena. In questo senso, appare
meritevole approfondire i riscontri di Pfoa nel mais, a fronte delle mancate rilevazioni di Pfas a corta catena. Questo dato può trovare una spiegazione
non nella contaminazione delle acque, ma in quella del terreno, capace di trattenere più efficacemente i Pfas a catena medio-lunga. Questo aspetto viene approfondito in seguito.
I metodi analitici utilizzati non appaiono completamente in linea con lo stato dell’arte sotto alcuni aspetti:
a) la correlazione ai consumi della derrata alimentare (gli alimenti
più consumati, quali quelli di origine vegetali dovrebbero avere livelli
di rilevabilità analitica più performanti: un alimento molto consumato
ma poco contaminato può dare apporti equivalenti ad un alimento molto
contaminato ma poco consumato); b) l’orientamento, come ad esempio nel
caso delle acque potabili, di sommare tra di loro le contaminazioni di
Pfas che possono riconoscere la stessa via per determinare l’effetto
tossico, che sta portando a rivedere al ribasso i limiti di performance;
c) la qualità delle apparecchiature analitiche disponibili presso i
laboratori che può permettere livelli prestazionali analitici di
garanzia per limitare il numero di campioni con risultati non
quantificati; d) la revisione al forte ribasso dei valori guida per le
esposizioni alimentari umane, da 1500 ng/kg/giorno per il Pfoa (Efsa
2008) ai 20 ng/kg/giorno della Agenzia Statunitense per l’Ambiente
(Us-Epa, 2016).
Da ultimo, nello studio sono stati considerati 12 Pfas in
campo alimentare; i rappresentanti Efsa hanno segnalato di considerare
18 Pfas per cui sono disponibili informazioni tossicologiche sufficienti
per derivare valori guida per l’esposizione alimentare umana,
sia per la possibile tossicità associata, sia perché alcuni PFAS non
ricercati sono importanti precursori di Pfos e Pfoa, e dei Pfas a catena
corta. Chi sta sul territorio conosce i problemi legati
all’abbattimento dei Pfas dagli scarichi industriali, dove in seguito a
fermentazioni/ossidazione dei reflui in entrata al depuratore aziendale,
si generano concentrazioni di alcuni Pfas più elevate nei reflui in
uscita. Un tale approccio sarebbe stato interessante applicarlo ai vini,
ottenuti dalla fermentazione delle uve da tavola, possibilmente
conoscendo i Pfas precursori prodotti ed utilizzati sul territorio. La
liberazione di Pfos e Pfoa da precursori può riguardare anche l’ambito
intestinale e contribuire a spiegare i dati di biomonitoraggio umano e
animale rispetto alle esposizioni ambientali/alimentari.
(nella tabella Epa i Pfas da ricercare)
I dati alimentari spiegano l’esposizione umana?
Nel pesce di cattura da acque dolci, i livelli di
contaminazione da Pfos erano ampiamente attesi, specie quando riferiti
ai predatori. Il consumo di tali specie è di solito ristretto a
gruppi che appare non incluso nello studio di biomonitoraggio e che
vivono di sussistenza anche per le abitudini alimentari etniche, in cui
sarebbe lecito attendersi livelli elevati di Pfos nel sangue.
Per contro,
non appaiono decisive le contaminazioni per Pfoa nei vegetali per spiegare i dati di biomonitoraggio-allevatori,
fatta salva la prestazione dei metodi analitici. In particolare nei
vegetali, sembra trovare riscontro parziale riscontro quanto segnalato
da Arpa veneto riguardo una estensione della contaminazione da Pfas
rispetto alla falda dovuta a pratiche agricole, e soprattutto, la attesa
maggiore presenza di Pfas a catena corta, dotati di maggiore mobilità
rispetto al Pfoa, e quindi più efficaci nel passaggio dalla matrice
suolo a quella vegetale, attraverso l’assorbimento radicale.
Il discorso delle positività nei maiali – muscolo/fegato a
Pfoa e in secondo ordine delle uova può essere l’aspetto veramente
interessante,
che può sottolineare come la contaminazione sia tuttora presente e insista in modo importante in ambiente zootecnico,
anche per fattori non legati all’acqua: questo per la durata abbastanza
contenuta della vita zootecnica degli animali che riduce il tempo di
esposizione/bioaccumulo, per il contatto prolungato in atteggiamento
esplorativo (grufolamento, razzolamento) con il terreno alla ricerca di
una risorsa alimentare, e per la possibile alimentazione zootecnica a
base di mais aziendale (contaminato).
Questo dato sposta quindi l’attenzione dal fattore acqua al fattore suolo,
laddove il Carbonio organico presente nel’humus del suolo superficiale è
in grado di concentrare di circa 1000 volte Pfos e Pfoa presenti nelle
acque di irrigazione e meteoriche, laddove l’apporto non provenga da
ammendanti compostati da fanghi di depurazione. In un terreno al 3% di
Carbonio organico irrigato con acqua contenente Pfoa a 500 ng/L, ci si
aspettano concentrazioni di 15 ng/g, ordine di grandezza compatibile con
la rilevata contaminazione nel mais, tenendo presente i fattori di
trasferimento.
In particolare risulta interessante osservare come il Pfos, a più
elevato bioaccumulo rispetto al Pfoa, spunti concentrazioni inferiori.
Questo dato è in controtendenza rispetto alla letteratura
internazionale, e non trova nemmeno riscontro nei dati disponibili sulla
selvaggina – cinghiale, dove nel muscolo sono riportati valori mediani e
massimi per il Pfoa (2.75–15.9 ng/g) simili a quelli del Pfos
(2.47–12.8 ng/g), mentre nel fegato il Pfoa (6.7-39 ng/g) risulta
presente a concentrazioni circa 10 volte inferiori (Pfos 95–397 ng/g).
In tale contesto, viene a mancare il dato relativo alla selvaggina – cinghiale,
peraltro
segnalata nelle schede di rilevazione dei consumi alimentari degli
allevatori come possibile fattore da associare ai livelli ematici di
Pfoa/Pfas. La presenza di una importante popolazione di
ungulati, la adozione di abbattimenti di pubblica utilità, la presenza
sul territorio di centri per la macellazione della selvaggina non
dovrebbero avere costituito degli ostacoli per considerare non fattibile
tale campionamento ed analisi, anche alla luce delle evidenze della
letteratura internazionale. Inoltre tale animale costituisce di fatto
una ottima sentinella ambientale, su cui ad esempio orientare le
attività sia ambientali che alimentari per rilevare potenziali sorgenti
secondarie di contaminazione.
La valutazione e caratterizzazione del rischio: non solo acqua?
La Regione Veneto recentemente ha inteso adottare per le acque
potabili limiti per Pfoa molto più restrittivi rispetto a quelli
proposti dall’Istituto Superiore di sanità nel 2014 (500 ng/L). Tali
nuovi livelli di performance sono in linea con quelli statunitensi che
sono stati proposti sulla base di un valore guida per esposizione umana
pari a 20 ng/kg/ giorno già ricordato in avanti.
Considerando il gruppo allevatori/agricoltori sembra più
opportuno esaminare in chiave conservativa il consumo alimentare quasi
esclusivo della derrata prodotta in loco (la macellazione familiare del
maiale) e i consumi alimentari medi. A livello di consumo
familiare appare limitativo considerare un livello medio di
contaminazione e risulta abbastanza improbabile che un individuo sia
contemporaneamente un forte consumatore di uova, fegato, carne, pesce.
Considerando quindi le contaminazioni più elevate riscontrate (fatta
salva la robustezza statistica degli alti percentili), e i consumi medi
del database Inran Scai riferiti alle sole persone adulte che
effettivamente consumano la derrata,
per individui di 63 kg si
otterrebbero solo per il consumo di mais e prodotti a base di mais,
fegato e carni suine (compresi prosciutti, salami e salsicce), uova,
esposizioni alimentari di 55 ng/kg giorno di Pfoa. Tale
esposizione troverebbe una equivalenza in una contaminazione di acqua
potabile pari a 1700 ng/L di Pfoa per un consumo di 2 L/persona/giorno
(Us-Epa pone un consumo di 1,4 L), e risulta superiore ai livelli guida
per esposizioni umane statunitensi di un fattore di circa 2, che laddove
venisse inclusa anche l’acqua potabile, aumenterebbe fino a 3 per un
livello di performance a 500 ng/L.
Considerazioni finali
I dati prodotti dallo studio presentato alla stampa forniscono
spunti
di approfondimento per la contaminazione ambientale dei suoli agricoli,
e per l’apporto di Pfoa da parte di alimenti solidi, di origine animale.
Tali elementi non sembrano siano stati adeguatamente considerati fino ad ora,
dove l’attenzione è stata fondamentalmente rivolta al ruolo delle acque
potabili, e all’adozione dei sistemi di depurazione adeguati.
A questo punto appare dirimente conoscere l’annunciata opinione Efsa sui Pfas,
per
meglio interpretare i risultati prodotti dallo studio Iss-Izs
Venezie–Arpa Veneto sugli alimenti, risultati che si auspica siano resi
disponibili in modalità aperta. Questo può essere un utile
confronto per tutto il mondo agricolo produttivo che già si è
preoccupato di eseguire analisi in autocontrollo per la presenza di Pfas
presso laboratori privati, e che rivendica la genuinità delle proprie
produzioni e la applicazione delle buone pratiche agricole, anche se non
si può escludere che sia tra le categorie più esposte.
A cura redazione del Sivemp Veneto – 21 novembre 2017