Quando l’idroelettrico si “beve” tutta l’acqua. Nel bellunese la rapina è “verde” #CementoArricchito
“… in pratica quindi non un metro di salto resterà senza la sua corrispondente centrale
e soltanto limitate e saltuarie frazioni di portate d’acqua andranno perdute”
Carlo Semenza, 1950 – Progettista della Diga del Vajont
Siamo cresciuti con l’idea che l’idroelettrico è bello: zero emissioni ed energia pulita da fonte rinnovabile. In realtà la questione è ben più complessa e anche il settore dell’idroelettrico è caratterizzato da problematiche ambientali e speculative significative quando non viene adeguatamente regolamentato e controllato. Il bacino idrografico della Piave ne è un esempio lampante, con il suo pessimo primato di essere il più artificializzato d’Europa con circa il 90% delle sue acque già utilizzate per scopi idroelettrici e irrigui. Non è una novità, infatti, che l’acqua dei torrenti dolomitici abbia fatto gola a tanti, già dagli anni 20 del ‘900 con la realizzazione dei primi grandi impianti di derivazione. Ma è a partire dal secondo dopoguerra che, sulla spinta determinata dalla ricostruzione e dall’industrializzazione del Paese, inizierà la prima grande rincorsa all’oro blu dolomitico che si concluderà alle 22.39 del 9 ottobre 1963 con la catastrofe del Vajont.
Sono gli anni delle grandi dighe, dei primati ingegneristici, delle aziende come la SADE del veneziano Conte Volpi di Misurata. Eppure, a soddisfare la sete di acqua, non sono bastati quei 2000 morti causati dall’avidità dei protagonisti di quella vicenda né il lasciato di quella prima stagione predatoria con i suoi 12 serbatoi artificiali, 2 laghi naturali ampliati, 200 km di gallerie e condotte forzate, 80 prese per 17 grandi centrali Enel, 87 impianti per la produzione idroelettrica.
E’ già con i primi anni ’80, infatti, che iniziano le prime avvisaglie di un ritorno dell’idroelettrico nel bellunese, quando il Consorzio Bim Piave, che raggruppa quasi tutti i Comuni della Provincia di Belluno, commissionò alla ditta Zollet di Santa Giustina (Bl) uno studio per la realizzazione di nuovi impianti. La stessa azienda che ancora oggi è tra i protagonisti della seconda stagione predatoria iniziata nei primi anni del 2000. Sono gli anni di un nuovo far west sui corpi idrici bellunesi. O meglio su quello che ne rimane, ovvero su quel misero 10% di acqua ancora libera di scorrere nei propri alvei e che ha “resistito” alla prima ondata speculativa degli anni ‘50/’60.
Ma sono anche gli anni del Comitato Bellunese Acqua Bene Comune (ABC), nato oltre una decina di anni fa da un piccolo gruppo di persone ispirato dal lavoro di Renzo Franzin. Nel tempo il comitato è cresciuto fino a diventare una realtà riconosciuta nel bellunese e capace di mobilitare migliaia di persone, in particolar modo a partire dal 2009 con la prima grande manifestazione provinciale. Ma oltre alle mobilitazioni, il Comitato ABC inizia parallelamente una campagna di informazione e di studio sulle problematiche dell’iper-sfruttamento idroelettrico nel bellunese. I risultati delle indagini, presentati in vari convegni e puntuali incontri pubblici, fanno emergere una situazione molto preoccupante, caratterizzata dal mancato rispetto delle normative europee sulla tutela dei corpi idrici e da una totale deregolamentazione del settore a favore delle imprese proponenti che “sgomitano” per accaparrarsi quell’ultimo 10% di acqua non artificializzata. Il risultato: ad oggi oltre 150 richieste per nuove centrali giacciono in Regione Veneto. Una vera grande opera, non concentrata in un unico luogo ma diffusa su tutto il territorio bellunese.
Quasi tutti i progetti prevedono impianti Mini e Micro, inferiori al megawatt e quindi con un apporto energetico complessivamente irrisorio rispetto al fabbisogno nazionale. Si calcola che in Italia gli impianti Mini e Micro siano circa 1900 e coprano un millesimo del fabbisogno energetico nazionale. Attualmente, ci sono altri 1700 impianti di queste dimensioni in istruttoria, tra le quali le 150 richieste ricadenti in provincia di Belluno. Se realizzate, l’apporto energetico crescerebbe complessivamente solamente di un altro misero millesimo. Di un nulla, quindi, soprattutto se paragonato al significativo e oggettivo impatto che, invece, questi progetti hanno sull’ecosistema fluviale. I nomi possono essere forvianti: di Mini e Micro, infatti, questi impianti hanno solo il nome.
Ma se l’apporto energetico di questi centrali è irrisorio e l’impatto ambientale è elevato, perché vengono realizzate? La causa va ricercata negli “incentivi verdi” che hanno completamente drogato il mercato: l’energia prodotta da queste centrali, infatti, viene venduta ad una cifra tre volte superiore al prezzo normale. Questo ha permesso ai proponenti di realizzare centrali anche in torrenti con portate d’acqua molto basse, che non sarebbero state sufficienti a produrre una quantità di energia tale da giustificare gli investimenti: queste centrali, infatti, non sarebbero economicamente sostenibili se non vi fossero gli aiuti statali. Incentivi che pagano i cittadini in bolletta. Si tratta circa di un miliardo di euro all’anno, che potrebbe essere investito in politiche di efficientamento energetico che, secondo un recente studio della Fondazione Enel fatto in collaborazione con il politecnico di Milano, potrebbero portare ad un numero complessivo di nuovi occupati compreso tra 103.000 e 310.000 unità, una riduzione tra i 50 e i 72 milioni di tonnellate delle emissioni di C02. Si preferisce, invece, ingrassare un business a favore di pochi, trasformando i torrenti in veri e propri bancomat. Questo business risulta enorme considerando che l’utile netto di una centrale sotto il megawatt può superare tranquillamente il milione di euro all’anno. Alcune aziende si sono limitate a vendere la concessione ottenuta dalla Regione Veneto, ovvero l’autorizzazione a costruire la centrale, a cifre che possono superare i 3 milioni di euro.
Per fermare questo meccanismo di vera e propria rendita sui torrenti bellunesi, il comitato ABC ha promosso anche un “Appello nazionale per la salvaguardia dei corsi d’acqua dall’eccesso di sfruttamento idroelettrico”, sottoscritto da centinaia di associazioni italiane e alcuni importanti ricorsi sul piano legale. I più significativi sono due. Il primo ricorso riguarda una centrale prevista in Valle del Mis, all’interno del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi e nel cuore del Sistema 3 del WHS (World Heritage Site) Dolomiti UNESCO, proposta dalla ditta Eva Valsabbia di Chicco Testa, che aveva ricevuto le autorizzazioni dalla Regione nonostante non si rispettassero le norme della legge quadro sulle aree protette.
C’è voluto un ricorso in Cassazione per ristabilire la verità sulla vicenda. La Corte ha bloccato l’opera al 90% della sua realizzazione e ha imposto il ripristino ambientale dei luoghi che, ancora dopo oltre 1000 giorni dalla sentenza, non è stato attuato. Il comitato ABC ha anche chiesto il risanamento di una vera e propria discarica a cielo aperto, all’interno di un’area che è Patrimonio Mondiale dell’Umanità.
Il secondo ricorso riguarda invece Bruxelles. Si tratta di un ricorso europeo presentato alla Commissione Ambiente che è tutt’ora in corso e sta producendo i suoi primi frutti: l’Europa, infatti, ha chiesto alle autorità italiane e alla Regione Veneto di fare chiarezza su quanto sta accadendo nel Bacino della Piave.
La battaglia, però, è ancora lunga anche se la Regione Veneto, proprio in questi giorni, sta rivendendo le linee guida in materia di concessioni idriche sulla spinta della campagna “Adesso Basta Centrali”. Il fronte contrario all’iper-sfruttamento idroelettrico, anno dopo anno, si è notevolmente allargato e oggi non è più soltanto una questione ambientale, ma una vera e propria contrapposizione sociale alla rapina in corso nata dalla speculazione e dallo sfruttamento di quei beni comuni che sono i torrenti e i fiumi dolomitici.
di Ics (Bellunopiu.it)
Realizzato con il contributo dell’Ordine dei Giornalisti del Veneto – Premio per giovani giornalisti Massimiliano Goattin 2015.
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