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domenica 11 marzo 2018

La sanità pubblica veterinaria e la sfida nel prevenire l’esposizione alimentare a Pfas (e non solo) nel contesto One Health


La sanità pubblica veterinaria e la sfida nel prevenire l’esposizione alimentare a Pfas (e non solo) nel contesto One Health

SOMMARIO. I Paesi industrializzati stanno affrontando il problema di limitare l’utilizzo di sostanze per- e poli-fluoroalchiliche (Pfas) nel loro complesso, con una nuova attenzione ai composti più polari, dotati di maggiore mobilità. Tale mobilità determina che, una volta rilasciati nell’ambiente, possano entrare facilmente nella catena alimentare tramite l’assorbimento radicale dei vegetali, poiché risultano difficilmente rimovibili dall’acqua. La completa caratterizzazione delle sorgenti di pressione anche antropica dovute al rilascio di Pfas dai beni di consumo e dai rifiuti solidi urbani e assimilati è richiesta per l’utilizzo agronomico di acque di depurazione civile e di bio-solidi, quale misura preventiva atta a limitare il trasferimento della contaminazione alla catena alimentare. Possono essere rilasciati Pfas anche differenti da quelli considerati fino ad ora in ambito Reach, potenzialmente presenti nei prodotti di importazione da Paesi extra Eu. La prevenzione in sicurezza alimentare passa attraverso la definizione di criteri end-of-waste, da tarare caso per caso. Infatti, la contaminazione del cibo deve essere oltremodo ridotta laddove si ipotizzi che il principale contributo all’esposizione alimentare sia dato, ad esempio, dall’acqua potabile. Questo, per non superare complessivamente i valori guida ritenuti tollerabili per la salute umana, valori che possono contemplare la esposizione contemporanea a più Pfas in modo cumulativo.

Uno scenario in evoluzione
L’evoluzione nella conoscenza della diffusione ambientale Pfas (sostanze per- e poli-fluoroalchiliche), composti ancora non normati nella legislazione zootecnica e alimentare, evidenzia la necessità che la sanità pubblica veterinaria – veterinari aziendali compresi – sia pronta ad aggiornare le opportune valutazioni di rischio anche in assenza di parametri di legge specifici, che peraltro potrebbero risultare presto superati rispetto alla progressiva evoluzione delle conoscenze, e alla disponibilità di valide alternative, almeno nella produzione di beni di largo consumo. Questo, mutuando ove possibile, metodologie ed approcci da altri settori, quali quello ambientale, in un quadro One Health.
In campo ambientale, ad esempio si valuta la qualità dell’ambiente attraverso stime conservative di esposizione umana indiretta, data dal consumo di alimenti contaminati georeferenziati, esposizione da confrontare con i definiti valori guida per la salute umana; si supera di fatto l’approccio di giudizio di conformità/non conformità rispetto a un eventuale limite di legge nell’alimento. E’ il caso ad esempio degli standard di qualità per i prodotti ittici nell’ambito delle strategie comunitarie sulla qualità delle acque interne e dei bacini marini. Per analogia, questo può essere traslato anche ad alimenti solidi più “terrestri”, laddove sono la contaminazione dell’acqua di abbeverata, di irrigazione e dei suoli “i drivers” di esposizione indiretta dell’uomo, esposizione che tiene conto anche dei contributi dall’acqua potabile, dall’aria, e in determinati contesti, dall’ingestione accidentale di polvere di casa e dal contatto percutaneo. Tali contributi risultano peraltro diversificati a seconda dei luoghi, dell’età, dello stato fisiologico e degli stili di vita.

Il contributo relativo di un alimento all’esposizione aggregata
Per ogni principale via di esposizione ai Pfas (inalatoria, percutanea, alimentare), e all’interno dell’esposizione alimentare tra le varie categorie di alimenti (acqua inclusa), appare dirimente allocare la corretta percentuale di contributo all’esposizione aggregata, in modo da evitare un potenziale superamento dei valori guida per la salute umana dovuto al contributo appunto aggregato delle varie fonti di esposizione. Se ad esempio si stabilisce che il contributo dell’esposizione aggregata viene dall’acqua potabile per l’80%, i livelli di contaminazione nell’alimento “solido” dovrebbero essere estremamente contenuti quanto più ampio è il loro consumo, poiché potrebbero comunque rappresentare “la goccia” che fa traboccare il vaso rispetto ai valori di riferimento per la salute umana. In questo senso, la attenzione sui tavoli di valutazione e gestione del rischio si sta focalizzando su quelle molecole per-e poli-fluoroalchiliche dotate di maggiore mobilità tra i comparti acqua/aria/suolo, in quanto possono interessare il biota – uomo compreso – in maniera appunto aggregata, e soprattutto essere più frequentemente presenti e a concentrazioni in progressivo aumento sia nel comparto ambientale che in quello alimentare, trasversalmente nei cibi di origine vegetale e animale.

L’evoluzione del quadro pre-normativo
Come già segnalato su questo sito in precedenti redazionali, la valutazione del rischio ambientale/alimentare rappresentato dalla produzione, utilizzo e rilascio dei Pfas si sta quindi rapidamente evolvendo. I nuovi elementi di conoscenza sono costituiti:
1) dalla revisione dei parametri di qualità delle acque potabili a tutela della salute umana relativi alla somma di tutte le sostanze Pfas proposti dal Parlamento e Consiglio Europeo e resi pubblici il 1° febbraio scorso, somma che va ben oltre le 12 molecole per-fluoroalchiliche attualmente oggetto di indagine ambientale/alimentare nella Regione Veneto.
2) Dal “position paper” di ottobre 2017 della Agenzia ambientale tedesca Uba per proteggere l’acqua potabile anche dai Pfas a corta catena in virtù della loro mobilità, persistenza e tossicità, composti da monitorare alla stregua di quelle a catena media-lunga (ad es. Pfhs, Pfoa, Pfos) già classificati nel regolamento Reach come di interesse prioritario.
3) Il commento rilasciato dal Comitato Scientifico per i Rischi ambientali della Commissione europea Scheer, in merito all’utilizzo delle acque reflue da depuratori civili per l’irrigazione dei campi agricoli e per la ricarica degli acquiferi, in base a criteri end-of-waste, da valutare caso per caso e tarati sulle sostanze di interesse prioritario, quali ad esempio i Pfas.
4) La proposta di Regolamento europeo sulla economia circolare che non consente la libera circolazione in Europa e l’etichettatura eco-label ad ammendanti agricoli ottenuti dai fanghi di depuratori, peraltro utilizzabili solo nell’ambito di produzioni convenzionali.
5) Il disegno di legge S.2323 che prescrive in tali ammendanti il controllo di Pfas, e di farmaci, ormoni ed altri contaminanti di origine antropica, disegno basato su aspetti di prevenzione del rischio ambientale, biologico, alimentare, e sanitario e che si ricollega direttamente all’identificazione dei criteri end-of-waste sopra richiamati per l’utilizzo delle acque reflue in agricoltura.
6) La sottolineatura del Panel Efsa sui rischi emergenti sia microbiologici che chimici, che riguardano appunto l’economia circolare e il recupero di carbonio organico e di acqua dalle attività connesse alla depurazione, nel suo rapporto di attività 2016-7.

I Pfas nell’acqua potabile e di falda come snodo cruciale per la sicurezza alimentare
Quanto sopra esposto si riflette nei valori di contaminazione da Pfas proposti dalla Unione europea il 1° febbraio 2018, utilmente paragonabiili a quelli in vigore in Regione Veneto da ottobre 2017 per le filiere idropotabili (con esclusione dell’acqua di abbeverata), e a quelli in vigore a livello nazionale in campo ambientale dal 2017 per le acque sotterranee e di falda, considerate riserva “nobile” di acqua potabile in funzione del rischio sanitario per l’uomo (vedi tabella).

Il limite massimo di 500 ng/L proposto dalla Ue per la somma totale di Pfas (ricordiamo che le molecole inventariate dall’Ocse sono più di 3.000) nelle acque potabili richiede una accurata conoscenza di tutte le fonti di produzione, utilizzo e rilascio ambientale, comprese le sorgenti antropiche tra cui sono da annoverarsi le discariche di rifiuti solidi urbani e assimilati, le acque reflue dei depuratori civili. Tali sorgenti contengono i Pfas rilasciati dai prodotti di consumo e dai loro rifiuti, anche riferibili ad epoche antecedenti al loro attenzionamento: è il caso di dire che la memoria storica persiste.
Tale limite massimo si dovrà per forza riflettere sulla revisione sui valori soglia critici per la salute umana (diretta e indiretta) previsti per le acque sotterranee, oggi normate dal Decreto del ministero dell’Ambiente del 6 luglio 2016, valori che ricalcano gli ormai superati livelli di performance utilizzati nella prima fase dell’emergenza idropotabile del Veneto. Le acque sotterranee proprio perché rappresentano una risorsa nobile, devono necessariamente parametrarsi ai valori previsti per le acque potabili.

Una nuova gestione del rischio a fini preventivi?
La lettura degli ultimi documenti prodotti a livello internazionale in materia può essere di aiuto, opportunamente incrociata con i dati provenienti dal territorio, per elaborare una strategia di prevenzione che non insegua il pregresso, ma che attraverso un coinvolgimento attivo degli stakeholders permetta di ridurre o mitigare la pressione che i Pfas esercitano sulla salute attraverso l’esposizione alimentare, in modo complessivo. In questo sono di aiuto gli studi internazionali condotti in aree agricole impattate. I Pfas a corta catena in termini analitici rappresentano il maggiore contributo alla somma totale, e risultano capaci di trasferirsi in termini quantitativi a seconda delle peculiarità del contesto, dal suolo e dall’acqua ai vegetali. D’altra parte, visto l’ampio utilizzo dell’acqua di falda nelle zone irrigue venete per finalità agro-zootecniche, si prospetta poco praticabile in termini di costo/beneficio applicare sistemi di filtrazione in grado di rimuovere i Pfas a corta catena, estremamente mobili, da tutti i punti di captazione delle acque sotterranee.

Non perdere la memoria: l’insostenibile peso del consumatore?

Rimane da quantificare quale sia l’impatto esercitato dalla pressione di discariche di rifiuti solidi urbani e assimilabili attive e non, tramite il percolato, sull’acqua di falda profonda, o sulle acque superficiali e sui fanghi di depuratori tramite la possibile re-immissione dei percolati trattati a norma, negli scarichi affluenti ai depuratori civili. In questo la presenza di numerose discariche in Veneto, anche riferite al conferimento del rifiuto solido urbano e assimilato, possono rappresentare una fonte di pressione ambientale/alimentare di Pfas vecchi e nuovi, i cui metodi di ricerca dovranno necessariamente essere implementati per numero di sostanze ricercate (non limitarsi solo ai composti perfluorurati) e per sensibilità analitiche. I Pfas sono assolutamente presenti nei rifiuti urbani, come dimostra l’analisi dei percolati condotta in varie parti del mondo, con concentrazioni che raggiungono solo per il Pfoa anche i 100.000 ng/L (vedi Figura).

Arpa Veneto nel suo Rapporto per il 2016 riguardante il controllo delle sostanze perfluorurate (non esteso a quelle poli-fluorurate) nelle fonti di pressione della Regione fornisce alcune importanti spunti. La presenza di percolato nelle acque sotterranee richiede una attentissima considerazione delle attività richieste per mettere in sicurezza e nel caso bonificare tali siti, secondo i dettami e la completa attuazione, trascorsi 15 anni, del Dlvo 13 febbraio 2003 n. 36, considerando che la percolazione di sostanze inquinanti organiche nell’acqua sotterranea è di solito indice di criticità croniche in termini di tenuta della discarica, laddove di solito sono i metalli quali Cadmio e Cromo i primi a muoversi, per la minore interazione con gli strati di terreno, in proporzione alla profondità della falda rispetto al fondo della discarica.

Il problema tecnologico
Le procedure di abbattimento dei Pfas a lunga catena nei reflui industriale e civili e nei percolati regolarmente drenati e gestiti per fermentazione/termolisi, potrebbero risultare poco efficaci nel ridurre l’impatto ambientale/alimentare, in quanto il problema si sposterebbe verso la formazione di composti a corta catena, più mobili e più facilmente assorbiti dalle piante, con trasferimento della contaminazione alla parte edibile. La sfida è quella di ridurre la presenza di Pfas totali sotto i 500 ng/L, per permettere un libero accesso alla risorsa idrica, in accordo con quanto proposto a livello europeo. Una rilettura dei dati acquisiti finora sulla qualità delle acque superficiali, profonde, e potabili può dare una idea dei nuovi scenari.

Il problema agronomico e i rischi emergenti in sicurezza alimentare (per non gettare fango sulle produzioni di qualità venete)
In questo tutto questo si inserisce una storica importante produzione ed utilizzo di ammendanti compostati contenenti fanghi di depuratori in agricoltura nella Regione Veneto, sotto la supervisione dell’Osservatorio regionale per quanto riguarda la qualità del compost veneto. I dati del 2015 riferiscono un impiego di 212.000 t. di fanghi provenienti da depuratori civili (attività non agro-industriali) nella produzione di ammendante compostato contenente fanghi. Non da ultimo, lo smaltimento illegale di fanghi di “dubbia” provenienza, oggetto di indagine a livello nazionale anche da parte della Commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo rifiuti, va particolarmente attenzionata. Una tracciabilità e caratterizzazione dei “rifiuti” e del ciclo produttivo degli ammendanti, sia ai fini autorizzativi, che commerciali, è auspicabile, tenendo presente che nel campo della produzione alimentare, i criteri end-of-waste devono essere alquanto stringenti, e anche loro tarati a stime conservative di esposizione alimentare umana.
Efsa nel suo rapporto 2017 sui rischi emergenti nei prossimi 3-5 anni indica chiaramente come questi possano derivare dall’utilizzo diretto e indiretto dei fanghi di depurazione in agricoltura, e dal ciclo dell’acqua, laddove si impieghino reflui di depuratori nell’irrigazione. Tutto questo va inquadrato anche nella competizione sempre più forte che c’è per l’utilizzo della risorsa idrica tra la produzione primaria e le altre attività antropiche, alla luce dei cambiamenti climatici. Chi è interessato, può approfondire gli aspetti di disincentivazione dei fanghi di depurazione in agricoltura adottati in Svizzera e Germania, ad esempio, che hanno promosso, nell’ambito della economia circolare, iniziative per produzione di idrogeno da queste biomasse, con maggiori guadagni e innovazione tecnologica.

Abbiamo bisogno della sfera di cristallo?
Nel prossimo futuro si richiederanno approfondite valutazioni rischio/beneficio caso per caso, sia nei riguardi della corretta e tempestiva identificazione dei pericoli emergenti (in quanto non sottoposti a piani di monitoraggio su base regolare per la mancanza di uno specifico limite di legge) e dell’aumentato rischio sanitario per le modificate situazioni, nell’ambito di specifici contesti geografici (es. zone fortemente antropizzate vs zone a bassa densità abitativa e a prevalente indirizzo agronomico). In quel territorio dove esistono numerose e differenziate fonti di pressione, che possono tradursi in vie di esposizione differenti per l’uomo, i livelli di contaminazione tollerabili dovranno essere posizionati verso valori più restrittivi.
L’impatto sulla salute dell’uomo e degli animali in modo diretto e indiretto risulta quindi il driver principale per la progressiva, ma fattibile riduzione, sostituzione, eliminazione dei Pfas vecchi e nuovi dai vari cicli produttivi, come misura decisiva per abbattere il loro rilascio ambientale.
Si aspetta l’opinione Efsa sulla valutazione del rischio alimentare, già finalizzata dal gruppo di lavoro, e che attende solo la ufficializzazione tramite la pubblicazione. Sarà un ottimo spunto per pianificare una prevenzione in un quadro “One Health” a livello territoriale, sia per la sicurezza, che per l’accesso alla risorsa alimentare. La curiosità spinge a domandarsi se i valori proposti dal Parlamento europeo e dal Consiglio per l’acqua potabile già tengano conto della valutazione Efsa.

Letture consigliate
Decreto Legislativo 13 gennaio 2003, n. 36 “Attuazione della direttiva 1999/31/CE relativa alle discariche di rifiuti”
Disegno di legge 2323 2016. Delega al Governo per la modifica della normativa in materia di utilizzo dei fanghi di depurazione in agricoltura
D.M. 6 Luglio 2016 Recepimento della direttiva 2014/80/UE della Commissione del 20 giugno 2014 che modifica l’allegato II della direttiva 2006/118/CE del Parlamento europeo e del Consiglio sulla protezione delle acque sotterranee dall’inquinamento e dal deterioramento.
ARPAV. IL RECUPERO DELLA FRAZIONE ORGANICA IN VENETO Anno 2015
Regione Veneto, piano regionale per la gestione dei rifiuti urbani e speciali, allegato alla Dgr n. 264 del 5 marzo 2013
Proposta di REGOLAMENTO DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO COM (2016) 157 final che stabilisce norme relative alla messa a disposizione sul mercato di prodotti fertilizzanti recanti la marcatura CE e che modifica i regolamenti (CE) n. 1069/2009 e (CE) n. 1107/2009
ARPAV. PROGRAMMA DI CONTROLLO DELLE SOSTANZE PERFLUOROALCHILICHE NELLE FONTI DI PRESSIONE DELLA REGIONE VENETO ANNO 2016 Relazione finale di sintesi 30 aprile 2017
Proposta del Parlamento e Consiglio Europeo sulla qualità delle acque per consumo umano (revisione) del 01.02.2018
EFSA (European Food Safety Authority), Afonso A, García Matas R, Maggiore A, Merten C and Robinson T, 2017. Technical report on EFSA’s Activities on Emerging Risks in 2016. EFSA Supporting publication :EN-1336. 59 pp.
German Environment Agency 2017 Protecting the sources of our drinking water: A revised proposal for implementing criteria and an assessment procedure to identify Persistent, Mobile and Toxic (PMT) and very Persistent, very Mobile (vPvM) substances registered under REACH. www.umweltbundesamt.de/publikationen
Zhang H, et al., 2017 Geographical differences in dietary exposure to perfluoroalkyl acids between manufacturing and application regions in China. Environmental Science & Technology
Hamid H, et l., 2018 Review of the fate and transformation of per- and polyfluoroalkyl substances (PFASs) in landfill. Environmental Pollution 235:74
Rizzo L, et al., 2018 Proposed EU minimum quality requirements for water reuse in agricultural irrigation and aquifer recharge: SCHEER scientific advice. Current Opinion in Environmental Science & Health, 2:7.

18 febbraio 2018
A cura redazione Sivemp Veneto


martedì 5 dicembre 2017

Il punto di vista veterinario. La contaminazione da Pfas negli alimenti: l’anello mancante tra qualità dell’ambiente ed esposizione dell’uomo


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Il punto di vista veterinario. La contaminazione da Pfas negli alimenti: l’anello mancante tra qualità dell’ambiente ed esposizione dell’uomo

I dati prodotti dallo studio sui Pfas in varie matrici alimentari presentati alla stampa il 16 novembre scorso forniscono spunti di approfondimento per la contaminazione ambientale dei suoli agricoli, e per l’apporto di Pfoa da parte di alimenti solidi, di origine animale. Tali elementi non sembra siano stati adeguatamente considerati fino ad ora, dove l’attenzione è stata fondamentalmente rivolta al ruolo delle acque potabili, e all’adozione dei sistemi di depurazione adeguati.

Premessa

La presentazione alla stampa dei risultati analitici su 12 Pfas riscontrati nella cosiddetta area rossa in varie matrici di interesse alimentare è oggetto di grande interesse, specie se correlata alla conoscenza resa disponibile sulla contaminazione della falda da parte di Arpa Veneto, nel corso della Summer School  Assoarpa di Cagliari 27-29  settembre, e più recentemente dalla Regione Veneto e dall’Istituto Superiore di sanità per quanto riguarda lo studio di biomonitoraggio, con particolare riferimento ai residenti nelle area della ex Asl 5 e 6, e indipendentemente dalle Asl ex 5 e 6, nel gruppo di allevatori/agricoltori, nel corso del Convegno nazionale “Ambiente e salute” a Bologna, il 7 e 8 novembre scorso.
Per dare alcune chiavi di lettura dei dati alimentari, sembra opportuno sintetizzare quanto partecipato a Cagliari e a Bologna.

I dati ambientali

A Cagliari Arpa Veneto ha definito in modo tridimensionale e geo-referenziato la contaminazione da Pfas nella falda associata alla pressione industriale della ditta Miteni, e il suo andamento sotterraneo e poi sorgivo. Rispetto all’andamento di tale falda e alla modellizzazione delle dispersioni, tenendo in considerazione i differenti flussi delle acque sotterranee e superficiali, la contaminazione da Pfas rilevata sul territorio è molto più estesa rispetto alla proiezione sulla superficie della area di falda: ciò viene principalmente attribuito ad attività antropiche legate all’agricoltura (irrigazione, fertilizzazione), e alla probabile presenza di altre sorgenti di contaminazione, che ancora non si conosce se siano legate all’attività di produzione dei Pfas. La contaminazione ambientale viene considerata di difficile rimozione, per cui si presume che il problema sarà presente per vari decenni, data la compromissione dell’acquifero indifferenziato, che ha uno spessore di circa 150 metri di ghiaia nella zona “critica”.

Il biomonitoraggio umano

A Bologna, l’illustrazione dei dati di biomonitoraggio ha restituito informazioni sulla presenza significativa di Pfoa nel siero delle persone appartenenti alla zona rossa–esposti, rispetto agli individui delle zone di controllo, con significative differenze nei livelli tra persone appartenenti all’Asl ex 5, alla ex 6, e nel gruppo di allevatori, appartenenti alla cosiddetta area rossa. Gli indicatori statistici evidenziano che il carico corporeo di Pfoa in Asl ex 5 è  tra i più alti descritti nella letteratura internazionale in casi analoghi (vedi studio C8 Ohio/Virginia)  e risulta di un fattore 4-5 più elevato di quello  presente in Asl 6,  che a sua volta differisce significativamente da quello dei gruppi di controllo–non area rossa. In questo contesto, il gruppo di allevatori, indipendentemente dall’appartenenza all’Asl ex 5 o 6, mostra livelli mediani più elevati rispetto al gruppo Asl 5. Questo dato è stato interpretato con la presenza di fattori addizionali all’esposizione a Pfoa rispetto all’acqua, che dalle schede sulle abitudini alimentari raccolte si associa al consumo di vegetali prodotti in loco (cereali, frutta) e di alimenti di origine animale.

I dati alimentari: campionamento ed analisi

Alla luce di questa premessa, i dati scientifici sulla contaminazione degli alimenti  presentati il 16 novembre in conferenza stampa possono essere letti in modo aggregato nel seguente modo, in attesa di una più puntuale ed aperta disponibilità del dato grezzo, di come sia stato prodotto, e di come sia stato elaborato.

La rappresentatività dei  campioni si evince calcolata sulla base di una assunta distribuzione binomiale delle frequenze di contaminazione e della relativa deviazione standard: “Per le matrici non considerate nel precedente campionamento, la numerosità campionaria è stata determinata con lo scopo di stimare la contaminazione media con una precisione pari al 25% della deviazione standard in valore assoluto e una confidenza del 95%”. Tale approccio non è consueto per i contaminanti ambientali persistenti, in cui i descrittori statistici da prendere in considerazione sono oltre la media (meglio geometrica),  la mediana e i vari percentili/interquartili, in virtù delle distribuzione di frequenza asimmetriche, e nel caso, la deviazione assoluta intorno alla mediana. Tali frequenze di distribuzione poi risultano molto differenti tra alimento e alimento, e con profonde differenze ad esempio tra Pfos e Pfoa nelle matrici animali e vegetali.  Questo può avere portato ad una riduzione del numero di campioni, numerosità richiesta per descrivere in modo robusto le alte contaminazioni (alti percentili), che sono estremamente utili per capire sia i dati di biomonitoraggio nel gruppo “allevatori”, sia la presenza di possibili fonti di inquinamento secondarie, segnalato da Arpaveneto.
Il campionamento diretto degli alimenti consumati da tale gruppo allevatori sarebbe probabilmente stato la via maestra, in un quadro di one health, e avrebbe dato peso alle evidenze già acquisite e in parte ovviato alle ristrette numerosità campionarie considerate.
In particolare, appaiono oltremodo critiche le numerosità campionarie per la verdura in foglia, da ritenersi più suscettibile per la contaminazione a Pfas a corta catena. In questo senso, appare meritevole approfondire i riscontri di Pfoa nel mais, a fronte delle mancate rilevazioni di Pfas a corta catena. Questo dato può trovare una spiegazione non nella contaminazione delle acque, ma in quella del terreno, capace di trattenere più efficacemente i Pfas a catena medio-lunga. Questo aspetto viene approfondito in seguito.
I metodi analitici utilizzati non appaiono completamente in linea con lo stato dell’arte sotto alcuni aspetti: a) la correlazione ai consumi della derrata alimentare (gli alimenti più consumati, quali quelli di origine vegetali dovrebbero avere livelli di rilevabilità analitica più performanti: un alimento molto consumato ma poco contaminato può dare apporti equivalenti ad un alimento molto contaminato ma poco consumato); b) l’orientamento, come ad esempio nel caso delle acque potabili, di sommare tra di loro le contaminazioni di Pfas che possono riconoscere la stessa via per determinare l’effetto tossico, che sta portando a rivedere al ribasso i limiti di performance; c) la qualità delle apparecchiature analitiche disponibili presso i laboratori che può permettere livelli prestazionali analitici di garanzia per limitare il numero di campioni con risultati non quantificati; d) la revisione al forte ribasso dei valori guida per le esposizioni alimentari umane, da 1500 ng/kg/giorno per il Pfoa (Efsa 2008) ai 20 ng/kg/giorno della Agenzia Statunitense per l’Ambiente (Us-Epa, 2016).

Da ultimo, nello studio sono stati considerati 12 Pfas in campo alimentare; i rappresentanti Efsa hanno segnalato di considerare 18 Pfas per cui sono disponibili informazioni tossicologiche sufficienti per derivare valori guida per l’esposizione alimentare umana, sia per la possibile tossicità associata, sia perché alcuni PFAS non ricercati sono importanti precursori di Pfos e Pfoa, e dei Pfas a catena corta. Chi sta sul territorio conosce i problemi legati all’abbattimento dei Pfas dagli scarichi industriali, dove in seguito a fermentazioni/ossidazione dei reflui in entrata al depuratore aziendale, si generano concentrazioni di alcuni Pfas più elevate nei reflui in uscita. Un tale approccio sarebbe stato interessante applicarlo ai vini, ottenuti dalla fermentazione delle uve da tavola, possibilmente conoscendo i Pfas precursori prodotti ed utilizzati sul territorio. La liberazione di Pfos e Pfoa da precursori può riguardare anche l’ambito intestinale e contribuire a spiegare i dati di biomonitoraggio umano e animale rispetto alle esposizioni ambientali/alimentari. (nella tabella Epa i Pfas da ricercare)

I dati alimentari spiegano l’esposizione umana?

Nel pesce di cattura da acque dolci, i livelli di contaminazione da Pfos erano ampiamente attesi, specie quando riferiti ai predatori.  Il consumo di tali specie è di solito ristretto a gruppi che appare non incluso nello studio di biomonitoraggio e che vivono di sussistenza anche per le abitudini alimentari etniche, in cui sarebbe lecito attendersi livelli elevati di Pfos nel sangue.
Per contro, non appaiono decisive le contaminazioni per Pfoa nei vegetali per spiegare i dati di biomonitoraggio-allevatori, fatta salva la prestazione dei metodi analitici. In particolare nei vegetali,  sembra trovare riscontro parziale riscontro quanto segnalato da Arpa veneto riguardo una estensione della contaminazione da Pfas rispetto alla falda dovuta a pratiche agricole, e soprattutto, la attesa maggiore presenza di Pfas a catena corta, dotati di maggiore mobilità rispetto al Pfoa, e quindi più efficaci nel passaggio dalla matrice suolo a quella vegetale, attraverso l’assorbimento radicale.
Il discorso delle positività nei maiali – muscolo/fegato a Pfoa e in secondo ordine delle uova può essere l’aspetto veramente interessante, che può sottolineare come la contaminazione sia tuttora presente e insista in modo importante in ambiente zootecnico, anche per fattori non legati all’acqua: questo per la durata abbastanza contenuta della vita zootecnica degli animali che riduce il tempo di esposizione/bioaccumulo, per il contatto prolungato in atteggiamento esplorativo (grufolamento, razzolamento) con il terreno alla ricerca di una risorsa alimentare, e per la possibile alimentazione zootecnica  a base di mais aziendale (contaminato).
Questo dato sposta quindi l’attenzione dal fattore acqua al fattore suolo, laddove il Carbonio organico presente nel’humus del suolo superficiale è in grado di concentrare di circa 1000 volte Pfos e Pfoa presenti nelle acque di irrigazione e meteoriche, laddove l’apporto non provenga da ammendanti compostati da fanghi di depurazione. In un terreno al 3% di Carbonio organico irrigato con acqua contenente Pfoa a 500 ng/L, ci si aspettano concentrazioni di 15 ng/g, ordine di grandezza compatibile con la rilevata contaminazione nel mais, tenendo presente i fattori di trasferimento.
In particolare risulta interessante osservare come il Pfos, a più elevato bioaccumulo rispetto al Pfoa, spunti concentrazioni inferiori. Questo dato è in controtendenza rispetto alla letteratura internazionale, e non trova nemmeno riscontro nei dati disponibili sulla selvaggina – cinghiale, dove nel muscolo sono riportati valori mediani e massimi per il Pfoa (2.75–15.9 ng/g) simili a quelli del  Pfos (2.47–12.8 ng/g), mentre nel fegato il Pfoa (6.7-39 ng/g) risulta presente a concentrazioni circa 10 volte inferiori (Pfos 95–397 ng/g).

In tale contesto, viene a mancare il dato relativo alla selvaggina – cinghiale, peraltro segnalata nelle schede di rilevazione dei consumi alimentari degli allevatori come possibile fattore da associare ai livelli ematici di Pfoa/Pfas. La presenza di una importante popolazione di ungulati, la adozione di abbattimenti di pubblica utilità, la presenza sul territorio di centri per la macellazione della selvaggina non dovrebbero avere costituito degli ostacoli per considerare non fattibile tale campionamento ed analisi, anche alla luce delle evidenze della letteratura internazionale. Inoltre tale animale costituisce di fatto una ottima sentinella ambientale, su cui ad esempio orientare le attività sia ambientali che alimentari per rilevare potenziali sorgenti secondarie di contaminazione.

La valutazione e caratterizzazione del rischio: non solo acqua?

La Regione Veneto recentemente ha inteso adottare per le acque potabili limiti per Pfoa molto più restrittivi rispetto a quelli proposti dall’Istituto Superiore di sanità nel 2014 (500 ng/L). Tali nuovi livelli di performance sono in linea con quelli statunitensi che sono stati proposti sulla base di un valore guida per esposizione umana pari a 20 ng/kg/ giorno già ricordato in avanti.
Considerando il gruppo allevatori/agricoltori sembra più opportuno esaminare in chiave conservativa il consumo alimentare quasi esclusivo della derrata prodotta in loco (la macellazione familiare del maiale) e i consumi alimentari medi. A livello di consumo familiare appare limitativo considerare un livello medio di contaminazione e risulta abbastanza improbabile che un individuo sia contemporaneamente un forte consumatore di uova, fegato, carne, pesce.
Considerando quindi le contaminazioni più elevate riscontrate (fatta salva la robustezza statistica degli alti percentili), e i consumi medi del database Inran Scai riferiti alle sole persone adulte che effettivamente consumano la derrata, per individui di 63 kg si otterrebbero solo per il consumo di mais e prodotti a base di mais, fegato e carni suine (compresi prosciutti, salami e salsicce), uova, esposizioni alimentari di 55 ng/kg giorno di  Pfoa. Tale esposizione troverebbe una equivalenza in una contaminazione di acqua potabile pari a 1700 ng/L di Pfoa per un consumo di 2 L/persona/giorno (Us-Epa pone un consumo di 1,4 L), e risulta superiore ai livelli guida per esposizioni umane statunitensi di un fattore di circa 2, che laddove venisse inclusa anche l’acqua potabile, aumenterebbe fino a 3 per un livello di performance a 500 ng/L.

Considerazioni finali

I dati prodotti dallo studio presentato alla stampa forniscono spunti di approfondimento per la contaminazione ambientale dei suoli agricoli, e per l’apporto di Pfoa da parte di alimenti solidi, di origine animale. Tali elementi non sembrano siano stati adeguatamente considerati fino ad ora, dove l’attenzione è stata fondamentalmente rivolta al ruolo delle acque potabili, e all’adozione dei sistemi di depurazione adeguati.
A questo punto appare dirimente conoscere l’annunciata opinione Efsa sui Pfas, per meglio interpretare i risultati prodotti dallo studio Iss-Izs Venezie–Arpa Veneto sugli alimenti, risultati che si auspica siano resi disponibili in modalità aperta. Questo può essere un utile confronto per tutto il mondo agricolo produttivo che già si è preoccupato di eseguire analisi in autocontrollo per la presenza di Pfas presso laboratori privati, e che rivendica la genuinità delle proprie produzioni e la applicazione delle buone pratiche agricole, anche se non si può escludere che sia tra le categorie più esposte.
A cura redazione del Sivemp Veneto – 21 novembre 2017