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lunedì 21 gennaio 2019

Miteni: IL PREAMBOLO E I NOMI DEGLI INDAGATI di Marco Milioni

Sono passate poche ore dalla decisone della procura di Vicenza di chiudere le indagini sull’affaire Miteni e già fioccano le polemiche sulle scelte adottate dai magistrati berici sui quali si è scagliata Legambiente del Veneto che parla di «deludente la mancata applicazione delle legge sugli eco-reati».

IL PREAMBOLO E I NOMI DEGLI INDAGATI

Quando ieri dagli uffici della procura della Repubblica di Vicenza è filtrata la notizia della chiusura delle indagini è stato fin da subito possibile avere una istantanea degli indagati rispetto ai quali le toghe si apprestano a chiedere il rinvio a giudizio.
L’elenco è composto da quattro giapponesi, ex manager di Mitsubishi la corporation, proprietaria della trissinese Miteni fino al 5 febbraio 2009- Maki Hosoda, Kenji Ito, Naoyuki Kimura e Yuji Suetsune, quest ultimo già presidente del consiglio di amministrazione -, poi ci sono altri quattro manager riferibili ad Icig international, la holding germanico-lussemburghese subentrata nella proprietà della fabbrica trissinese sino al recente fallimento del 9 novembre 2018 ; risultano poi indagati altri cinque tra ex manager e ex funzionari di Miteni con delghe specifiche in tema di sicurezza e ambiente. Si tratta dell’ex amministratore delegato Luigi Guarracino, dell’ex direttore tecnico Mario Fabris, di Mauro Cognolato, di Davide Drusian e di Mario Mistrorigo. Antonio Nardone, ultimo amministratore delegato di Miteni, è invece uscito dall’inchiesta poiché il suo arrivo sulla plancia di comando dell’azienda sarebbe troppo tardivo rispetto a reati che si sarebbero materializzati ben prima e che quindi non sarebbero a lui riconducibili.

LE ACCUSE

A vario titolo gli indagati sono accusati dai sostituti procuratori Hans Roderich Blattner e Barbara De Munari di avere inquinato l’ambiente sapendo di farlo, senza adottare adeguate contromisure e senza informare le autorità preposte. Tra le evidenze che i magistrati avrebbero portato a sostegno dell’impianto accusatorio c’è l’aspetto della compravendita del 2009 quando Miteni fu venduta dai Giapponesi ad Icig al prezzo di un euro pur a fronte di una società che valeva aleno quindici milioni. Si tratterebbe della indicazione rispetto ad un incombente costo di bonifica ascrivibile ad un inquinamento storico del quale i manager chiamati in causa fossero perfettamente a conoscenza. Il dettaglio emerse alcuni anni fa quando i carabinieri del Noe di Treviso, che ha svolto la maggior parte delle indagini preliminari, scovarono la documentazione della compravendita tra il gruppo nipponico e quello europeo. Secondo i magistrati berici però le contestazioni penali arrivano sino al 2013. Anno dal quale Miteni avrebbe cominciato un percorso di collaborazione con le istituzioni. Sul piano più formale la contestazione dei reati è quella di avvelenamento delle acque e disastro innominato in concorso con l’aggravante del dolo.

LA STOCCATA

Frattanto fra i vari protagonisti della vicenda, mondo ambientalista in primis, giungono i primi commenti sulle novità emerse a Borgo Berga, sede del palazzo di giustizia vicentino. Tra le primissime c’è stata quella di Legambiente Veneto che contesta la scelta della procura di fissare al 2013 il termine per la ricerca degli illeciti. Se le condotte degli ex manager fossero state ritenute penalmente rilevanti sino ai nostri giorni si sarebbe applicato il nuovo codice dei reati ambientali: che non solo prevede pene più severe ma limita il rischio della prescrizione. «La nostra associazione - si legge in un dispaccio pubblicato poche ore fa sul suo portale veneto - approfondirà i motivi per cui, allo stato attuale, non sono state applicate le fattispecie delle legge 68 del 2015, tra cui quella di disastro ambientale... che, a differenza di quella di disastro innominato, ha tempi di prescrizione ben più lunghi e rende meno difficoltosa l’identificazione dei responsabili».

QUESTIONE IN PUNTA DI DIRITTO

E mentre aumentano i malumori nella galassia ecologista e dei comitati per il cammino intrapreso dalla procura, la partita si trasferisce dal campo delle indagini preliminari a quella della interpretazione in diritto delle evidenze acquisite dagli investigatori.

La Miteni a partire dal 2013 ha davvero cominciato a collaborare o la cosiddetta autodenuncia altro non fu l’esito di una indagine sui Pfas che in realtà aveva preso il là grazie alla iniziativa del Cnr e dell’Arpav veneta? Le operazioni di sequestro materialmente condotte dai carabinieri, i documenti scovati da questi ultimi durante le perquisizioni, la maxi sanzione amministrativa da oltre tre milioni di euro comminata dal Noe a Miteni nel luglio dello scorso anno sono la spia di un managemet che ha tenuto un comportamento omissivo ed inerte o comunque non dimostrano una condotta penalmente rilevante, quanto meno per il periodo successivo al 2013? Le risposte a questi quesiti potrebbero fare capolino tra le pieghe del fascicolo relativo alla inchiesta. Si tratta del fascicolo 1943/16 mod. 21 al quale adesso potranno accedere le parti. Rispetto a quest’ultimo al momento non è nemmeno dato sapere se vi siano parti offese. E non è da escludere che, anche alla luce delle informazioni scritte nero su bianco in quegli atti, le associazioni ambientaliste facciano sentire la loro voce, anche all’ufficio del giudice delle indagini preliminari perché quest’ultimo riformuli le accuse.

LO SCENARIO

Bisognerà capire adesso che cosa succederà rispetto all’altro filone d’inchiesta rimasto allo stadio delle indagini preliminari, quello sugli sversamenti «dell’acido GenX»: rispetto al quale sembra che saranno distillate accuse di tipo colposo e non doloso. Altro capitolo invece è quello degli esposti redatti dalla Cgil, in cui si ipotizzano le lesioni a danno degli operai. In ultimo poi ci sono le denunce della associazione Greenpeace sulle presunte condotte omissive tenute da alcuni uffici regionali. Indiscrezioni giunte da Venezia parlano di uno o più fascicoli aperti proprio presso la procura del capoluogo regionale, competente per eventuali reati commessi dai funzionari della Regione o delle agenzie collegate alla regione.

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venerdì 7 settembre 2018

Pfas, Legambiente chiede una bonifica "senza se e senza ma"

Miteni bonifica
Miteni bonifica

Miteni bonifica
Pfas, Legambiente chiede una bonifica "senza se e senza ma"

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Dopo la conferenza dei servizi che avrebbe dato il là alla Miteni alla procedura di risanamento del suolo, ora gli occhi sono puntati sulla vigilanza di Regione e procura
 Miteni bonifica
Marco Milioni


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Il lungo iter della bonifica del sito e del sottosuolo della Miteni sembra essere giunto ad un punto di svolta. Da una parte la società trissinese finita al centro di un maxi caso di contaminazione che coinvolge tutto il Veneto centrale, si dice fiduciosa . E dice di avere trovato una sostanziale intesa con la Regione. Quest’ultima prende le distanze e spiega che quella procedura è stata la stessa Regione a doverla imporre . Nel frattempo la magistratura ha messo i sigilli ad un pozzo della ditta sotto al quale sarebbero state ritrovate sostanze nocive.

IN ATTESA DELLE CARTE

In queste ore i gruppi di ambientalisti che seguono il cosiddetto affaire Pfas sono in attesa dei documenti. Due giorni fa infatti la conferenza dei servizi che tra Regione, Arpav, provincia berica, Ulss e Comune di Trissino, sta seguendo l’iter della bonifica, ha redatto un poderoso verbale. Quest’ultimo, unito alla relazione del professore Giampietro Beretta dell’Università di Milano, sarà l’architrave della fotografia sull’inquinamento presente sotto la Miteni (in gergo si dice caratterizzazione) e del conseguente piano di bonifica.
«Procederemo con un formale accesso agli atti per capire se quella bonifica sarà degna di questo nome o no. Pretendiamo una bonifica senza se e senza ma» fa sapere Piergiorgio Boscagin (in foto una manifestazione contro la Regione), responsabile di Legambiente di Cologna Veneta, uno dei volti storici nella battaglia contro i Pfas. Il quale aggiunge: «In ossequio ai principi di trasparenza tanto osannati a palazzo Balbi ci saremmo aspettati di vedere allegate quelle carte ai comunicati stampa che la giunta regionale del Veneto ha dispensato in queste ore.
Dello stesso tenore è la reazione di Giuseppe Ungherese, responsabile per le campagne ambientali di Green Peace, altra associazione che sul caso Pfas sta dando filo da torcere non solo a Miteni, ma pure alla Regione: «Senza vedere i documenti è difficile dare un giudizio ma noi staremo sotto agli uffici, questo è chiaro». Maria Chiara Rodeghiero, volto noto di Medicina democratica del Veneto dal canto suo si rivolge direttamente agli uffici giudiziari: «La procura deve chiedere al giudice un sequestro cautelativo dell’impianto. Per la Miteni il tempo è scaduto».

VERSANTE POLITICO

Sul versante politico è il M5S che dai banchi della opposizione punta l’indice non solo contro la maggioranza di centrodestra che regge le sorti di palazzo Ferro Fini e della giunta, bensì proprio contro la macchina regionale: «Apprendiano che Miteni avrà altri sessanta giorni di respiro, visto che in questo lasso di tempo dovrà presentare e depositare presso la Magistratura il proprio piano di bonifica - dicono parlamentari, consiglieri regionali e consiglieri comunali del Movimento 5 Stelle del Veneto - finiti questi due mesi quanti gliene verranno ancora concessi? Ricordiamo che la caratterizzazione del sito su cui insiste la Miteni è sotto indagine da almeno tre anni, e che il governatore leghista Luca Zaia ordinò già nel 2017 ben 7000 carotaggi. Dove sono finite tutte queste belle premesse?».
Parole cui si uniscono quelle del consigliere regionale Manuel Brusco: «Mi sto già muovendo per capire le responsabilità di Arpav dal 2005 in poi, non solo a fronte di quanto emerso nei giorni scorsi, ma anche in merito a quanto sollevato dal M5S nel novembre 2017, ovvero che Miteni, in base alla relazione dei Noe, già era a conoscenza della gravità della situazione. Non verrà risparmiato niente a nessuno. E chi ha sbagliato o ha fatto finta di non vedere non dormirà più sonni tranquilli».

PASSAGGIO CRUCIALE

Ora le sorti delle riparazioni ambientali assumono un significato particolare sia per valutare la vicenda nel suo complesso sia per valutare l’operato della magistratura.
Proprio Vicenzatoday.it l'8 giugno rivelò infatti i contenuti di un delicatissimo colloquio tra l’amministratore delegato di Miteni Antonio Nardone ed alcuni collaboratori. In quella circostanza Nardone proferì una frase sibillina: «Noi stiamo avendo molti più contatti con gli enti di controllo per la bonifica... stiamo procedendo molto speditamente... ho accennato loro delle difficoltà finanziarie della Miteni... sembra che un po’ abbiano capito e stanno cercando di accelerare». A che cosa si riferiva Nardone esattamente? Chi tra gli enti di controllo ha capito o avrebbe capito il peso «delle difficoltà finanziarie della Miteni» tanto che, sostenne ancora Nardone in quel frangente, non si sarebbe proceduto con indagini sotterranee a maglia stretta su tutto il sedime aziendale? La frase precisa che pronunciò Nardone in quella circostanza fu infatti «la maglia dieci metri per dieci metri non si farà su tutta la Miteni ma si farà solo sulla parte dell’argine» in cui «c’è più probabilità di trovare della roba».
Si tratta di considerazioni astratte? O Nardone parla perché effettivamente ha avuto garanzie da qualcuno? La procura è a conoscenza di quelle frasi? Quanto quell’uscita potrebbe avere a che fare con il piano di caratterizzazione e col conseguente progetto di bonifica discusso due giorni fa? In termini finanziari sarà un piano light, come si tratteggiò nello scenario descritto su questo giornale appunto l’8 giugno? Quanto i due mesi concessi alla Miteni hanno a che fare con la proposta di concordato che è al vaglio del tribunale berico? E quanto tale bonifica peserà nelle poste che i curatori del concordato stanno soppesando?
Si tratta di quesiti cruciali rispetto ai quali c’è una sola certezza. Se al privato non sarà imposta una bonifica «a tutto tondo che riguardi non solo il suolo sotto la Miteni, ma anche la contaminazione eventualmente riscontrata altrove» gli ambientalisti, lo hanno ribadito a più riprese, sono pronti a saltare alla giugulare degli enti pubblici.

UN ASPETTO GIURIDICO CHE PESA

La delicatezza del passaggio si spiega in primis per una motivazione giuridica. Il reato di omessa bonifica, che è un reato persistente e che non si prescrive se la situazione rimane inalterata, si materializza solo se l’eventuale responsabile non ottempera alla disposizione di un ente titolato ad emanarlo (può essere la Regione, l’Arpav, una provincia o un comune) o non ottempera ad un ordine della autorità giudiziaria.
L’aspetto enigmatico dell’affaire Pfas è che di fronte ad una vicenda di tale portata in molti si sarebero aspettati che l’ordine della bonifica, dopo essere stato adeguatamente redatto in termini di costi e di modalità operative, partisse proprio dalla autorità giudiziaria. Cosa che fino ad oggi non è accaduta. Come se la magistratura procedesse quatta quatta in scia alla Regione pur a fronte dello straordinario potere conferitole dalle norme penali.
Ed è proprio in questa chiave che le decisioni assunte in conferenza dei servizi assumono una valenza cruciale. Perché, se per mera ipotesi, gli enti pubblici confezionassero un ordine di bonifica leggero, la Miteni eviterebbe di incappare in un reato insidiosissimo semplicemente ottemperando a prescrizioni all’acqua di rose. Diverso invece è il caso in cui la pubblica autorità emanasse un ordine di portata colossale. In quel caso il privato, forse assieme ai soci reali della spa, sarebbe messo con le spalle al muro: obbligato cioè a impegnarsi in maniera straordinaria sul piano operativo che economico. In caso contrario la sua responsabilità sfocerebbe in un processo dall’esito assai prevedibile senza nemmeno la via di uscita della prescrizione. Il che poi darebbe la stura ad una serie di richieste di danno in sede civile potenzialmente incalcolabili per la proprietà.

IL POZZO “NERO”

In queste ore per di più l’azienda deve fronteggiare anche la vicenda del materiale inquinante rinvenuto in uno dei pozzi attivi per il contenimento degli inquinanti. Secondo quanto riportato dal Corveneto on-line del 6 settembre è emerso che sotto quel pozzo sarebbero presenti alcune temibili sostanze chimiche: pece nera e Pfas a catena lunga ovvero Pfos, Pfoa e altri, non più prodotti in Miteni dal 2011, in quantità molto superiori alla media delle rilevazioni precedenti.
La società replica che «Il pozzo ha fatto il suo lavoro. E che il percolato liquido aspirato è di decenni orsono, prevalentemente benzotrifluoruri scesi a 25 metri di profondità. È accaduto a inizio agosto. E presumibilmente la procura ha fatto il sequestro per poter fare una verifica con un suo consulente.
Trattandosi di materiale più pesante dell’acqua - prosegue l’azienda sentita dal Corveneto - si è accumulato in fondo ma il pozzo lo ha pescato e aspirato: è un esempio di efficacia della barriera, non un problema».
Ai primi del mese per di più tra Arpav e azienda era andato in scena un battibecco. Quest’ultima sostiene infatti che la contaminazione da GenX in falda (un altro “cugino” dei Pfas lavorato in passato dalla Miteni) sia finito per l’appunto in falda a causa dei carotaggi (che secondo alcune voci circolate nella galassia ambientalista fino ad oggi sarebbero stata comunque ben poca cosa) che gli enti hanno imposto alla Miteni per radiografare lo stato del sottosuolo. Una ipotesi seccamente respinta al Mittente da Arpav la quale spiega che nessun inquinamento è addebitabile alla condotta dell’agenzia.

LA NOVITÁ

Frattanto a l’associazione arzignanese Cillsa, che da tempo si spende sul piano delle battaglie ambientali, sul suo blog commenta molto entusiasticamente la decisione della agenzia alimentare europea, l’Efsa, di abbassare «di 1500 volte la quantità di Pfas» tollerabile nei cibi e nell’acqua potabile. «I valori proposti... fanno giustizia di tutti i limiti di tolleranza farlocchi inventati e ripetutamente modificati, per l'acqua e per gli alimenti in questi ultimi anni». Appresso un duro j’accuse: «Adesso inizia la guerra da parte delle multinazionali dei Pfas e della diossina finalizzata a vedere innalzati i limiti di tolleranza. Speriamo che almeno questa volta si riesca a far valere il diritto alla salute su quello al profitto». Del caso Pfas per di più si è occupato pure il consigliere regionale democratico Andrea Zanoni

L’ATTEGGIAMENTO DELL’ESECUTIVO

Rimane poi da capire quale con quale stato d’animo la giunta regionale abbia accolto la notizia della maxi sanzione amministrativa (quasi 3,7 milioni di euro) patita da Miteni per omessa comunicazione ambientale, un mese e mezzo fa. Quello che è certo infatti è che l’esecutivo è entrato in possesso ufficialmente di un lungo estratto della multa elevata dal Noe il 24 luglio. Il documento che Vicenzatoday.it è in grado di mostrare in anteprima porta la medesima data e il protocollo numero 309128. I motivi per cui l’esecutivo guidato dal leghista Luca Zaia, pur a fronte dei numerosi richiami in materia di trasparenza, non abbia mai reso pubbliche quelle carte è tutto da chiarire. Del verbale del Noe peraltro si è occupato in queste ore anche il consigliere regionale Andrea Zanoni del Pd che sul portale notizie della Regione veneto ha lanciato una stilettata proprio all’indirizzo della fabbrica trissinese.


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domenica 5 novembre 2017

I fornitori di Miteni al centro della discussione in Ecomafie

sabato 4 novembre 2017

I fornitori di Miteni al centro della discussione in Ecomafie


Ieri sui media veneti facevano capolino le dichiarazioni di Manuel Brusco, l'esponente del M5S, a capo della commissione speciale Pfas istituita presso il consiglio regionale del Veneto. «Abbiamo incontrato i lavoratori, che sono toccati in modo diretto da questa situazione» aveva dichiarato Brusco alla stampa due giorni orsono. Tuttavia sono di ben altro tenore gli spunti che emergono da un'altra commissione. Ovvero quella bicamerale dedicata al ciclo dei rifiuti, più nota come Commissione ecomafie.
La seduta è quella del 15 settembre 2017 i cui verbali sono stati messi in chiaro sul sito web di Montecitorio pochi giorni fa. Più nel dettaglio sono stati messi in chiaro i verbali con le audizioni dei manager di Miteni spa, la fabbrica di Trissino nel Vicentino, finita al centro di un maxi caso di contaminazione da derivati del fluoro, i Pfas appunto, che ha interessato tutto il Veneto centrale. Sulla vicenda peraltro sta indagando la magistratura berica supportata dai Carabinieri del nucleo ambientale regionale, il Noe.
Ma perché l'audizione dei manager Miteni è così importante? Anzitutto va precisato che durante la sessione sono stati ascoltati l'amministratore delegato Antonio Nardone e il dirigente responsabile della sicurezza Davide Drusian: entrambi sono sotto indagine da parte della procura della città palladiana.
A pagina 16 dello stenografico c'è un passaggio significativo in cui il vice-presidente della Ecomafie, il deputato del M5S Stefano Vignaroli (che in quel momento assume l'incarico di presidente pro-tempore), chiede conto della filiera degli scarti di lavorazione della Miteni, nonché del ciclo delle acque di lavorazione, un aspetto che era stato sondato poco nel passato. A rispondere è proprio il dottor Drusian: «Vengo al ciclo delle acque. Il ciclo delle acque reflue è così gestito all’interno dello stabilimento: tutte le acque dello stabilimento, acque di processo e acque di dilavamento, vanno in un impianto di trattamento chimico-fisico». Poi la descrizione assume una valenza più tecnica: «... L’impianto di trattamento chimico-fisico è un impianto che neutralizza l’acqua, perché ha una caratteristica di acidità. Una volta che l’acqua è stata caratterizzata, si formano dei fanghi e l’acqua successivamente viene inviata a dei filtri a sabbia e poi a dei filtri a carbone e di qui viene immessa nella conduttura fognaria». Di seguito c'è un passaggio che riguarda i Pfas nello specifico: «... Le acque che, invece, provengono dall’impianto per fluorurati, ossia le acque che possono contenere tracce di composti perfluoro-alchilici, prima di essere trattate nell’impianto di trattamento interno, così come ve l’ho appena descritto, vengono filtrate su delle resine cosiddette copolimeri. Si tratta di resine specifiche per la rimozione dei composti perfluoro-alchilici delle acque. I copolimeri, una volta che si sono saturati, una volta che sono esauriti, li mandiamo a smaltimento, purtroppo non in Italia, perché non ci sono impianti. Ci appoggiamo alla piattaforma italiana che dopo va a smaltimento in Europa».
Ed è dopo questo passaggio che va in scena un vero e proprio scontro dialettico tra Drusiàn e il deputato del M5S. Quest'ultimo infatti chiede di sapere quali siano «le piattaforme» ovvero le società incaricate del trasporto dall'Italia verso l'estero degli scarti di lavorazione». Drusian cerca di procrastinare la risposta tanto che Vignaroli mettendo in un certo qual imbarazzo il manager di Miteni, questi sono i rumors giunti dalla commissione,  è costretto a prendere nuovamente la parola.
Dopo qualche istante Drusian è de facto obbligato a capitolare e a rivelare i nomi:  «Sadi era il vecchio nome di una che sta a Orbassano, in provincia di Torino: adesso si chiama Ambienthesis. Andiamo, quindi, all’Ambienthesis, che poi generalmente va a termocombustione, o può andare all’impianto di Tredi, che si trova in Francia, a Lione, oppure, ma più raramente, anche in Germania... Nel caso specifico dei copolimeri, ossia delle resine esauste, essi fanno generalmente questa strada. Vanno in Ambienthesis... Per i carboni attivi abbiamo due possibilità. Una è con il fornitore che ci fornisce anche il carbone vergine, un impianto a Ravenna che si chiama Cabot Norit, oppure li possiamo mandare presso un altro impianto che va direttamente a termo-distruzione. Anche questa è una piattaforma che si trova a Milano. Fa parte del gruppo Suez. Era la vecchia Ecoltecnica, se non ricordo male. Può andare o in Francia, o in Germania, in base alle notifiche aperte per andare all’estero. I rifiuti che produciamo, soprattutto i rifiuti chimici, vanno tutti all’estero a termodistruzione. Ci appoggiamo alle piattaforme perché hanno le notifiche per andare all’estero già aperte.
Ma chi sono i gruppi menzionati da Drusian? Il gruppo Sadi, in seguito divenuto Ambienthesis, fu al centro di uno dei più clamorosi scandali ambientali della Lombardia. É l'affaire Santa Giulia di cui parla diffusamente Bergamonews nel 2009, l'Espresso nel 2010 e ancora nel 2010 Il Fatto quotidiano. Si tratta di una partita, al centro di un ginepraio giudiziario infinito in ambito panale, civile ed amministrativo, la quale partita è ancora a tutt'oggi in corso. Basti pensare alla querelle attorno all'utilizzo dei terreni di riporto, considerati rifiuto da un provvedimento del tar lombardo dell'anno passato. Senza contare il fatto l'affaire Santa Giulia, almeno secondo gli inquirenti, si è rivelato un intricato ordito di illeciti non solo ambientali ma anche fiscali, il tutto condito con indagini che hanno colpito un centinaio di persone tra cui alcuni nomi eccellenti. Anche Paolo Barbacetto, noto giornalista d'inchiesta de Il Fatto, in più occasioni ha approfondito l'argomento.
Il nome Ecoltecnica finisce invece in due distinti servizi, sempre dedicati alla materia ambientale; il primo è del Corsera ed è datato 20 luglio 2009. Il secondo invece è firmato da Davide Milosa de Il Fatto e porta la data del primo di aprile 2014. In quest'ultimo articolo compare un'altra vecchia conoscenza delle cronache regionali venete e Lombarde, la Daneco, al centro, tra le altre, dell'affaire Pescantina Ca' Filissine. Rimane da capire adesso se la collaborazione di Miteni con i gruppi menzionati da Drusian sarà considerata o meno imbarazzante dagli attivisti che da mesi imputano alla Miteni un approccio non sufficientemente rigoroso rispetto alla vicenda che la vede protagonista. Una vicenda che ha avuto anche un risvolto internazionale. Basti pensare alla trasferta italiana di Robert Bilott (in foto il secondo da destra), l'avvocato americano che ha patrocinato un gruppo di famiglie contaminate da Pfas, nella vicenda cugina del caso Miteni, che ha toccato gli Usa diversi anni orsono

Marco Milioni

martedì 10 gennaio 2017

Pfas, quella nota (riservata) della sanità veneta

Pfas, quella nota (riservata) della sanità veneta

Mentre la Regione rassicura annunciando nuovi controlli, gli uffici di Mantoan mettono in conto uno scenario più drasti

«Siamo sul pezzo sin da quando emerse il problema Pfas. Sin da allora ci preoccupammo prima di tutto di mettere in sicurezza gli acquedotti, operazione portata a termine in pochissimi giorni. Ora si va più a fondo per verificare se e quanto queste sostanze abbiano fatto male all’ambiente e alle persone». A usare toni tanto distesi è il presidente leghista della Regione Veneto, Luca Zaia. Che ieri ha diramato una nota nella quale, oltre ad annunciare una serie di studi ad hoc su 85 mila persone per valutare con più precisione l’evolversi della situazione, cerca di tranquillizzare l’opinione pubblica rispetto ai reali rischi per la popolazione.
Ma le cose stanno davvero così? Perché stando ad un’altra nota lo scenario sembra mutare e non poco: «… Si chiede a tale scopo ai soggetti istituzionalmente competenti la tempestiva adozione di tutti i provvedimenti urgenti a tutela della salute della popolazione volti alla rimozione della fonte di contaminazione ivi comprese le opportune variazioni degli strumenti pianificatori di competenza». A parlare in termini così perentori è il segretario generale della sanità della Regione Veneto, Domenico Mantoan, in una missiva indirizzata a Luca Coletto, Giampaolo Bottacin e Giuseppe Pan, rispettivamente assessori alla sanità, all’ambiente e all’agricoltura.
Si tratta di una comunicazione riservata che Vvox.it ha potuto consultare e che porta il protocollo in uscita della Regione 4500 PP del 17 novembre 2016. Il documento chiede a tutti i soggetti istituzionali, dalla Regione alle Province sino ai consorzi di bonifica per arrivare ai Comuni, di prendere in seria considerazione l’ipotesi di modificare le norme di pianificazione in materia di inquinamento attualmente vigenti. Un’opzione drastica. Non solo perché in laguna gli uffici competenti potrebbero aver descritto una condizione di allerta mai delineata in precedenza. Ma anche perché da settimane si rincorrono voci di più indagini avviate da alcune procure venete, come pure da quella di Roma, per eventuali condotte anomale in ambito ministeriale. A tutt’oggi, c’è il fascicolo aperto dalla magistratura berica a carico dell’ex amministratore delegato dell’azienda trissinese Miteni, Luigi Guarracino.
Tuttavia c’è poi un altro elemento da tenere in considerazione: le dichiarazioni di Nicola Dall’Acqua, neo-direttore generale dell’Arpav, sulle colonne della Difesa del Popolo, il settimanale diocesano di Padova. Dall’Acqua ha addirittura parlato della necessità di «trasferire la Miteni» (nel riquadro lo stabilimento). Il servizio, pubblicato il 3 dicembre, aveva messo in subbuglio il mondo ambientalista veneto, che si è chiesto a questo punto quanto grave sia il pericolo, se l’Arpav pensa che Miteni debba fare le valigie al più presto. Mantoan sembra indirettamente aver dato una risposta. L’’amministratore delegato di Miteni, Antonio Nardone, dal canto suo il 23 dicembre aveva detto che la fabbrica entro il 2020 potrebbe dismettere la produzione di Pfas puntando su molecole meno impattanti.
Ancora, sempre Mantoan nella lettera indirizzata ai tre assessori cita un documento che mai aveva tenuto banco sul dibattito pubblico, ovvero lo «Studio sugli esiti materni e neonatali in relazione alla contaminazione da sostanze perfluoroalchiliche». Uno studio del 29 settembre 2016 con protocollo 398534 del 17 ottobre 2016, dal quale emerge come siano stati evidenziati in particolare l’incremento della pre-eclampsia, una malattia della gravidanza, del diabete gestazionale, di malformazioni maggiori «come anomalie del sistema nervoso, del sistema circolatorio e cromosomiche». Malanni, è specificato, che necessitano di tempi di osservazione più lunghi «per giungere a più sicure affermazioni».
Ma della questione è stato investito anche il presidente della provincia di Vicenza Achille Variati (Pd): la nota di Mantoan è finita anche sulla sua scrivania il 28 novembre 2016 col protocollo 79893. Da quel giorno le incombenze si sono moltiplicate sia a palazzo Nievo che sul sindaco di Trissino. Il testo unico sulle leggi sanitarie in tal senso all’articolo 217 parla chiaro: «Quando… scoli di acque, rifiuti solidi o liquidi provenienti da manifatture o fabbriche, possono riuscire di pericolo o di danno per la salute pubblica, il podestà prescrive le norme da applicare per prevenire o impedire il danno e il pericolo e si assicura della loro esecuzione ed efficienza…». Il termine podestà, figlio di una legge emanata in piena epoca fascista, è desueto e sostituito da “sindaco”, ma la norma è ancora vigente. Tanto che anche Mantoan la cita interamente.

Dal giornalista Marco Milioni la copia dell'importante documento del nostro direttore della sanità Veneta su donne incinte e feti

Questo file PDF, che contiene la copia senza allegati di un importante documento inviato dalla segreteria generale della sanità del Veneto a tre assessorati regionali e alla provincia di Vicenza può essere tranquillamente e liberamente diffuso. Per scaricare il documento è sufficiente cliccare sul link in basso
Saluti, Marco Milioni
https://drive.google.com/file/d/0B79_g8yAOzcBMVdmOC1URjhtWlE/view?usp=sharing

Marco Milioni





venerdì 18 marzo 2016

Pfas e diossina, dubbi non diminuiscono: aumentano

Pfas e diossina, dubbi non diminuiscono: aumentano

Secondo i critici, i provvedienti presi da Zaia sono insufficienti. E l'atteggiamento delle Procure non é chiaro

Come si sta muovendo la giunta Zaia dopo l’esplosione del caso Pfas? Il giudizio più feroce, ma circostanziato, io è quello del consigliere regionale Andrea Zanoni (Pd) che senza tanti giri di parole accusa Zaia così: «la montagna ha partorito un topolino». Un sorcio, verrebbe da dire vista la pericolosità delle sostanze immesse per anni nelle falde acquifere della spalla centro-occidentale del Veneto, lungo l’asta dell’Agno Guà Fratta Gorzone. Dopo le clamorose rivelazioni contenute di un verbale della commissione Pfas in cui i massimi dirigenti si accusavano l’un l’altro di ogni tipo di inerzia e incompetenza, è possibile che la giunta non chiami i suoi stessi dirigenti a rispondere? Possibile che dopo tanto clamore Zaia e soci si limitino a dire, alla grossa, “rifacciamo i test sui cibi visto che quelli che abbiamo fatto sino ad oggi non valgono nulla”?
L’altra questione l’ha sollevata il M5S puntando l’indice contro la Procura della Repubblica di Vicenza. Secondo il Fatto Quotidiano, se da una parte il procuratore Antonino Cappelleri parla di inchiesta archiviata sul caso dei venefici Pfas, il sostenuto Luigi Salvadori lo smentisce sostenendo che il fascicolo sia ancora aperto. Chi ha ragione dei due? Sarà importante capire, inoltre, come si sta comportando o come si comporterà nell’ambito della medesima vicenda la procura di Venezia. Le inerzie descritte nel famoso verbale Russo trapelato a fine febbraio dipingono fattispecie in limine col codice penale. E siccome eventuali reati commessi dai dirigenti regionali sono competenza della procura lagunare, quest’ultima sarebbe chiamata a indagare. «Ad oggi – attacca Sonia Perenzoni, consigliere comunale di Montecchio Maggiore, uno dei comuni berici potenzialmente interessato dal problema pfas – è stato perso più di un anno. È stato speso mezzo milione di euro per poi avere delle analisi che bisogna rifare».
I prossimi giorni saranno cruciali per capire se la Regione intenda muoversi con maggior decisione o se semplicemente cercherà di abbassare il profilo. A Palazzo Balbi, infatti, sono obbligati a fare i conti (e la cosa non è ancora avvenuta), con la dura relazione che in merito alla vicenda Pfas ha inviato l’Istituto Superiore di Sanità a Zaia & C. «In quella relazione – tuona Zanoni – sta scritto che con le concentrazioni riscontrate verrebbe consentita, per pesci e uova, l’assunzione di Pfas in quantità superiore alla dose minima consentita dagli studia della agenzia ambientale europea, la Efsa».
Ma non ci sono solo i Pfas: c’é anche la questione diossina. Se i primi sono riconosciuti come assai tossici (benché non è ancora completamente dimostrato siano cancerogeni), sulla diossina è accertato che sopra soglie minime è altamente cancerogena. Ed é anche di diossina che si parla nel famoso verbale Russo. Ora se la commissione stava affrontando i problemi dell’Ovest Vicentino, cos’altro potrebbe saltare fuori dai cassetti dell’amministrazione regionale? Proprio nell’Ovest Vicentino si trovano tre industrie, Zambon Lonigo, Fis Montecchio e la Miteni Trissino (coinvolta nel caso Pfas), dotate di impianti che hanno fatto domandare se per caso non siano a rischio emissione diossina.
E ancora: quanto pesa nell’inquinamento dell’asta Agno Guà Fratta il peso dell’enorme polo conciario del comprensorio Agno Chiampo? La somma di tre matrici inquinanti sono state più volte prese in considerazione dai comitati locali, ma la Regione non ha mai prodotto approfondimenti completi. Non è mai stato fatto, per essere chiari, uno studio epidemiologico come dio comanda. Sarebbe ora di prendere seriamente in mano queste e le altre questioni. Onde evitare l’accusa di sottovalutare i possibili rischi per la salute pubblica. Che possono potenzialmente finire sulla nostra tavola.


martedì 1 marzo 2016

Ehi Zaia, su banche e pfas ci sei o ci fai?


Ehi Zaia, su banche e pfas ci sei o ci fai?


Sui profughi é in prima linea. Ma su questioni altrettanto scottanti (ma per lui) il governatore leghista marca visita

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Mentre si diffonde la clamorosa e gravissima notizia della commissione tecnica della Regione Veneto “impazzita” sul caso dei tossici pfas, puro veleno per l’agroalimentare e la zootecnia (e da lì per i cibi sui nostri piatti). Mentre i soci infuriati con la Popolare di Vicenza manifestano la loro disperazione, con tanto di un sindaco in mutande, per il tracollo dei loro risparmi. Mentre continua lo scandalo Mose, voragine di denaro pubblico che finiremo di pagare, forse, fra qualche decennio. Mentre succede tutto questo, il governatore leghista Luca Zaia trova il tempo e la voglia di presenziare alla fiaccolata di un migliaio di trevigiani ad Oné di Fonte contro l’arrivo di 228 immigrati. Guardandosi bene dal dire una parola forte sul resto.
Quanto a Veneto Banca e Popolare di Vicenza, che Zaia debba far dimenticare che in passato non sia stato esattamente una voce critica verso i management, é cosa nota. Un po’ di perplessità in più, per usare un eufemismo, desta invece il suo silenzio sui veleni. Visto che l’ex pr dalla mossa zazzera ha ricoperto pure la carica di ministro dell’agricoltura, una qualche sensibilità in tema ce l’aspetteremmo. Dov’è oggi lo strenuo difensore della bontà e della salubrità dei prodotti veneti?
Ma sarebbe ingiusto prendersela sempre e solo con chi governa. Anche chi é governato ha le sue responsabilità: il cosiddetto popolo. Il popolo, se c’è mai stato, non c’è più. Perché se i veneti fossero davvero un popolo, a Fonte, al posto di protestare in mille per un problema vero ma circoscritto, sarebbero dovuti essere in ventimila, incazzati per quella specie di Mose di terragna che passerà a un metro da lì, e che si chiama Pedemontana Veneta. La quale oltre a costare uno sproposito e ad essere stata autorizzata Dio solo sa come, rischia pure di scassare il sistema di falde interessato, che è la ricchezza per antonomasia del Veneto. Se tra quei trevigiani che hanno urlato contro i migranti, fra i quali sicuramente allignano anche personaggi inclini al crimine o a fare i furbi (gli uomini sono tutti uguali anche nel peggio), se tra di loro albergasse davvero lo spirito di un popolo, gli avrebbero dovuto chiedere qualcosina anche su banche e pfas: “ehi Zaia, ci sei o ci fai?”.
Ora, si può dire di tutto di Zaia (e di quegli ampi settori del Pd che lo assecondano a mo’ di barboncino che porta la pantofola al padrone). Si sa che con i poteri forti non é un cuor di leone. Tuttavia, parafrasando Bertrand Russel, il bello della democrazia è che il politico non può mai essere più imbecille dell’elettore che lo ha votato. Per questo, e non solo per questo, i veneti si meritano quel che si stanno meritando. Magari di finire comprati in saldo dai cinesi o dagli arabi. Giusto o sbagliato che sia, loro un orizzonte (e i capitali) ce l’hanno. I veneti per quattro soldi, tre escort, due villette a schiera e un suv semestrale, stanno buttando nello sciacquone un millennio di gloriosa storia.

domenica 28 febbraio 2016

“Pfas”, verbale esplosivo contro la Regione Veneto di Marco Milioni

“Pfas”, verbale esplosivo contro la Regione Veneto

I test sugli alimenti contaminati sarebbero stati eseguiti senza un metodo scientifico. E mancano anche le comunicazioni ufficiali sui risultati

È esplosivo il verbale che il 4 febbraio scorso è giunto sulla scrivania del segretario generale della sanità veneta, Domenico Mantoan. Il documento, inviato da Francesca Russo direttrice del settore igiene e sanità pubblica, spiega senza mezze misure che le analisi condotte sino ad oggi dalla Regione Veneto e dalle sue agenzie sulla presenza dei pericolosissimi pfas negli alimenti, hanno un valore prossimo allo zero. Lacune, contraddizioni e scaricabarile: queste le evidenze che emergono dal carteggio-bomba.
TOSSICITA’
Nel 2013 esplode il caso dei cosiddetti pfas, sostanze derivate dal fluoro impiegate in molti settori industriali. Queste sostanze, che sono altamente tossiche poiché interferiscono col sistema ghiandolare, vengono trovate in primis, ma non solo, lungo l’asta fluviale e lungo il sistema di falda dell’Agno Guà Fratta, fra le province di Verona e Vicenza. I primi riscontri come sorgente inquinante parlano della Miteni (in foto), una notissima azienda chimica di Trissino nel Vicentino. Ma nel frattempo si accendono le luci anche su altri comparti industriali, a partire dalla concia e dalla farmaceutica. Pur non essendoci limiti di legge precisi circa la presenza nell’ambiente di tali sostanze, il problema assume nei mesi un peso via via crescente. Ci sono addirittura alcune segnalazioni alla autorità giudiziaria. Infatti vengono anche impugnate avanti alla magistratura amministrativa le soglie di tolleranza adottate dall’Istituto Superiore di Sanità e a cascata dalla Regione Veneto. Nel frattempo sempre la Regione, con tanto di rassicurazioni fornite dall’assessore alla sanità Luca Coletto, aveva avviato una campagna di monitoraggio che andasse oltre il vaglio sulla contaminazione delle acque, prendendo in esame lo stato di salute degli alimenti. Il tutto avviene sotto la regia di una commissione ad hoc, la “Commissione tecnica regionale pfas” coordinata dalla Russo e che vede tra i componenti di punta Giovann Frison (direttore prevenzione e sanità pubblica) e Giorgio Cester (direttore sezione veterinaria e sicurezza alimentare).
ACCUSA
La riunione materialmente si è tenuta il 13 gennaio. Il verbale porta la data del 4 febbraio 2016 e il protocollo è il 44211. Vvox può anticiparne in esclusiva la copia integrale che, allegati a parte, consta di 6 pagine. Nel documento (alcuni brani del quale sono già finiti sul Fatto Quotidiano peraltro) le parole della Russo suonano come un vero e proprio j’accuse nei confronti della sezione sicurezza alimentare. Specialmente là dove la dirigente chiede come mai alle istituzioni pubbliche che si stanno interessando della materia, Istituto Superiore di Sanità in primis, «non siano stati trasmessi ufficialmente i rapporti di prova che rappresentano il riscontro oggettivo e legalmente valido dei risultati analitici dei controlli, base necessaria per qualunque intervento istituzionale». Anche perché, si lamenta sempre la Russo, tali informazioni sarebbero state inviate mediante una tabella «sintetica non firmata né datata». Un altro passaggio investe il direttore della sezione veterinaria, vale a dire il dottor Cester: «… non si comprende la motivazione» per cui «i campioni» sugli alimenti siano stati «prelevati in un arco temporale lungo che va da novembre 2014 a giugno 2015» mentre i risultati si sono avuti «tutti insieme a settembre 2015 senza tenere in considerazione il fatto che il referto relativo alla sostanza che può nuocere alla salute deve essere fatto subito dopo il campionamento perché potrebbe comportare la necessità di provvedimenti urgenti o di modifiche nel programma di campionamento stesso (…) Un tempo durante il quale la popolazione ha continuato ad assumere alimenti con concentrazioni critiche di pfas». In sequenza c’è un’altro rilievo, quello di Arpav, che fa presente che la mancanza «di un sistema organizzato e integrato di banche dati… rende estremamente complesso… applicare… gli strumenti di analisi… necessari… richiesti dalla normativa».
DIFESA
Dal canto suo Cester informa di avere trasmesso all’Iss i rapporti di prova «delle analisi sugli alimenti» condotti dall’Istituto Zooprofilattico regionale, noto anche come Izsve. Introduce il suo intervento rimarcando come «altre priorità come la diossina» richiedano attenzione spiegando poi che «ogni azienda Ulss coinvolta» abbia condotto «campionamenti a modo proprio senza stilare per ogni campione la scheda anagrafica» ad esso riferibile. Ma nella sua prolusione Cester afferma anche che le delibere regionali di riferimento (la 2611 del 30 dicembre 2013 e la 168 del 20 febbraio 2014) prevedevano l’obbligo di compilare appositi questionari per contestualizzare i risultati acquisiti, ma che tali questionari non siano stati «compilati dalle Ulss che hanno effettuato i prelievi» sugli alimenti. Infine, Cester dichiara «di non avere mai i rapporti di prova dei singoli alimenti» presi a campione, e ribadisce «che non avrebbe fatto comunque nulla per la mancanza di valori di riferimento ministeriali». Ammette che «i campioni sono stati analizzati tutti alla fine perché l’Izsve non aveva finanziamenti ad hoc, per cui i campioni sono stati congelati e poi analizzati». Si tratta di un passaggio delicatissimo che segue ad una domanda specifica della Russo, la quale si era chiesta come mai il direttore della Sezione alimentare, anche nel suo ruolo di ufficiale di autorità regionale competente «a seguito delle informazioni sui dati da lui stesso definiti critici sugli alimenti non abbia dato seguito ad azioni conseguenti». A pagina 5 del verbale l’ultimo botta e risposta tra Russo e Cester: quest’ultimo, incalzato dai colleghi affinché chiarisca se i campioni testati siano ancora rintracciabili, risponde pacificamente che non è stata data alcuna indicazione e che «non è in grado di garantire che i campioni non siano già stati eliminati». Poi afferma che gli alimenti più contaminati sono «pesci e uova» e che è preoccupato dal fatto che ci siano sul territorio allevamenti che si occupano di produzione e distribuzione «di tali alimenti a livello nazionale». Al che la Russo domanda a Cester se sia consapevole del «conseguente danno economico e di immagine che ne può derivare per la Regione Veneto».
SCONTRO
Un altro alto funzionario regionale in distacco da Arpav presso il settore sanità pubblica, la dottoressa Marina Vazzoler, definisce «poco spiegabile la ragione per cui i campioni e i risultati non siano stati trasmessi alla Regione». Così parte l’ennesima frecciata all’Istituto zooprofilattico quando si precisa che non è spiegabile che un ente strumentale regionale come l’Izsve «non avesse effettuato subito le analisi visto che trattasi di emergenza di sanità pubblica». L’altra bordata arriva dal direttore del settore ambiente, l’ingegnere Fabio Strazzabosco, il quale denuncia che non si è dato seguito ad azioni «di tutela della salute per le persone che hanno mangiato e stanno magiando alimenti con presenza di concentrazioni critiche… Non siamo in grado di avere – tuona Strazzabosco – un piano di controllo sugli alimenti valido… la tabella dei risultati senza contesto, spiegazioni e ufficialità… si presta ad interpretazioni scientifiche errate».
CASO POLITICO
E che quello dei derivati del fluoro, i cosiddetti pfas, sia un caso nazionale lo si era capito quando due anni e mezzo fa si delinearono i contorni del bacino potenzialmente colpito dalla contaminazione. Un bacino di 300-400mila persone. Sono gli stessi alti funzionari a rendersi conto che il monitoraggio sin qui condotto rischia di essere un flop. Sul fronte politico, a parte il consigliere regionale del Pd Andra Zanoni, sono addirittura i vertici del M5S, a partire dal vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, ad aver chiesto accesso agli atti per conoscere quali siano le evidenze in possesso dell’Iss. Interpellato, l’assessore all’ambiente, il leghista Giampaolo Bottacin, non prende posizione. Lo stesso dicasi per il suo collega alla sanità Coletto e per il governatore leghista Luca Zaia. Si attende risposta anche dai dirigenti menzionati nel verbale.