La Chimica e la Società
Nell’Antropocene, l’epoca geologica attuale fortemente caratterizzata dalle attività dell’uomo, la Chimica ha il compito di custodire il pianeta e aiutare a ridurre le diseguaglianze mediante l’uso delle energie rinnovabili e dell’economia circolare.
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Smontare i mattoncini.
1
Mauro Icardi
L’idea del titolo mi è venuta facendo una riflessione sulla vicenda della diffusione ambientale dei PFAS.
Il problema della diffusione
nell’ambiente e della concentrazione nell’organismo umano, e
particolarmente nel sangue dei composti perfluoroalchilici è attualmente
uno dei problemi ambientali più gravi. Grave perché ,sia in Italia e
particolarmente in Veneto, ma anche in vaste zone degli Stati Uniti
questo tipo di composti , massicciamente e capillarmente diffusi
nell’ambiente hanno contaminato le falde acquifere da cui si prelevano
acque destinate all’uso idropotabile.
Nella zona di Vicenza si è ipotizzato che
la responsabilità sia da attribuire ad una azienda che utilizza questo
tipo di composti organici, e che non ha gestito correttamente il ciclo
di depurazione dei propri reflui.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, ed
in particolare nella zona di Portsmouth nel New Hampshire la
concentrazione di questi composti nell’acqua potabile sembra sia invece
dovuta alle esercitazioni antincendio che venivano effettuate in una
base dell’aeronautica militare degli Stati Uniti. Nell’area di questa
base venivano dati alle fiamme vecchi aerei per esercitazione. Gli
addetti della base provvedevano a spegnere gli incendi così provocati
con estintori nei quali questo tipo di composti erano presenti. Le
schiume percolavano nel terreno, e da qui hanno raggiunto le falde
acquifere. Nessuno si è mai preoccupato delle conseguenze di questo tipo
di attività, francamente piuttosto discutibile e gestita con una
incredibile superficialità.
Se si può pensare che non fossero ancora
note le caratteristiche di tossicità di questi composti, e anche vero
che negli Stati Uniti venne pubblicato fin dal 1962 un bestseller
dell’ambientalismo : “Primavera silenziosa” di Rachel Carson. In questo
libro si parlava dell’uso indiscriminato di DDT e pesticidi.Ma in ogni
caso si metteva già in luce il meccanismo di accumulo di composti
tossici principalmente nelle zone adipose del corpo umano, e anche nel
latte materno. Questo avrebbe dovuto essere uno spunto per l’adozione di
un principio di precauzione. La capacità dell’essere umano di ragionare
in prospettiva e di andare oltre ai presunti benefici immediati, e di
pensare a limitare il proprio impatto sull’ambiente, sembra essere un
insormontabile limite ancestrale. Quasi che molte nostre azioni siano
legate al cervello arcaico, quello che ci impedisce ogni attività
pensata, pianificata e guidata dalla razionalità.
Tornando ai PFAS si stanno cominciando a
prendere le contromisure del caso, si stanno cercando di identificare
dei limiti adeguati. Gli studi sono condotti dall’EPA (Enviromental
Protection Agency) e dall’OMS. Si sa che nel caso di questi composti
l’accumulo avviene principalmente a livello del sangue. Così come si è
riusciti a capire che i composti a lunga catena di carbonio (in generale
da otto atomi di carbonio e oltre) sono quelli che tramite il
meccanismo di riassorbimento nei tubuli renali transitano nei reni e
sono eliminati solo parzialmente attraverso l’eliminazione urinaria.
I
composti a catena di carbonio più corta invece riescono ad essere
espulsi dal corpo umano nel giro di pochi giorni. Per questa ragione i
principali produttori di PFAS negli Staiti Uniti, Europa e Giappone
hanno aderito ad un accordo volontario per eliminare i composti a lunga
catena di carbonio quali l’acido perfluoroottanoico (PFOA) e il
perfluoroottanosulfonato (PFOS). Ma le aziende che non hanno aderito a
questo accordo volontario continuano a produrre, importare o usare
questo tipo di composti a lunga catena di carbonio. Circa 500
tonnellate/anno sono ancora prodotte dalle industrie cinesi.
I dati sulla tossicità di questi composti
sono ancora oggetto di studio, ma l’accordo ha permesso di conseguire
qualche risultato che da qualche speranza. Se all’inizio dei controlli
sistematici la concentrazione di PFAS nel sangue dei cittadini americani
era pari a circa 5 ng/lt, nel 2012 questa concentrazione è risultata
all’incirca dimezzata. Composti di questo tipo, usati per realizzare
tessuti impermeabili all’acqua, in particolare per uso sportivo, nella
schiuma per estintori, e nei rivestimenti d i cartoni per alimenti sono
come si può intuire inquinanti persistenti ed ubiqui. Oltre
all’ingestione di acqua contaminata vengono molto spesso assorbiti
attraverso il consumo di pesce contaminato.
La produzione di composti a catena corta
che non subiscono accumulo persistente nell’organismo è una vittoria
solo parziale. Perché sposta il problema a livello ambientale. Nel corso
degli anni sono stati prodotti ed immessi sul mercato almeno 3000
tipologie di molecole di questo tipo. Molecole costruite sulla base del
legame carbonio-fluoro, dalla grande stabilità strutturale ma
praticamente impossibili a degradarsi per via naturale dalle comunità di
microrganismi. L’unica possibilità attuale è la diluizione e la
dispersione, che come si può ben intuire è la peggiore delle soluzioni.
A questo punto la sfida che l’industria
chimica dovrebbe affrontare è quella di un nuovo modo di costruire le
molecole. Pensando a renderle meno stabili, meno indistruttibili alla
fine del ciclo di vita. Questa è a mio parere forse la sfida più grande
che la chimica industriale deve affrontare. Ma che non può più essere
rimandata per molto tempo ancora. Affrontare questo impegno avrebbe il
duplice effetto di diminuire una tendenza alla cronicizzazione di
effetti tossici ancora non provati, ma che potrebbero essere
responsabili di gravi patologie, quali tumori, problemi ormonali e
diabete. La seconda quella di cambiare l’immagine della chimica, che
sconta comunque sempre in maniera non corretta una specie di peccato
originale. La chimica industriale negli anni ha raccolto ed esaudito le
istanze che venivano anche dai consumatori. Le belle catene di molecole
che sembravano i mattoncini delle costruzioni devono essere smontate e
ricomposte in altro modo. Qualcosa di simile a quanto avvenuto con la
linearizzazione delle molecole dei tensioattivi. Ora che ci siamo resi
conto che i rischi sono superiori, o non proporzionali ai benefici,
anche i semplici cittadini possono e devono orientare le scelte delle
aziende. Con le loro scelte personali. In fin dei conti nel passato ci
si riparava dalle piogge con la tela cerata.
Gli ultimi attori di questo cambiamento
devono essere gli esponenti della classe politica. Ritrovando l’essenza
del concetto di polis, di arte del governo devono destinare fondi alla
ricerca. Perché non ci sono solo i PFAS che si concentrano
nell’ambiente. Anzi potrebbero essere solo la punta dell’iceberg.
Inquinamento da PFAS in Veneto. Riflessioni.
Mauro Icardi
La vicenda è venuta alla ribalta nel
2013. Durante l’effettuazione di ricerche sperimentali da parte del
Ministero dell’Ambiente sui nuovi inquinanti “emergenti” è stata
verificata la presenza di PFAS (Perfluoroalchili) in acque superficiali,
sotterranee e potabili in Veneto. La zona interessata dall’inquinamento
da PFAS comprendeva il territorio della bassa Valle dell’Agno (VI), e
alcuni ambiti delle province di Padova e Verona .
E’
stata attivata una commissione tecnica regionale che ha provveduto ad
emanare dei limiti di concentrazione ammissibili. Tali limiti non sono
previsti nel D.lgs. 31/2001, che attua la direttiva 98/83/CE.
Non tutti i parametri sono presenti nelle
tabelle del decreto, e questo per ovvi motivi. Il numero di sostanze
che sono presenti e normate deriva dalle conoscenze scientifiche
disponibili. Per queste sostanze viene fissato un valore di parametro
che generalmente raccoglie gli orientamenti indicati dall’OMS
(Organizzazione Mondiale della Sanità).
Per altri tipi di composti non normati si può applicare il principio generale presente nel Decreto 31 cioè che: “Le
acque destinate al consumo umano non devono contenere microrganismi e
parassiti, né altre sostanze, in quantità o concentrazioni tali da
rappresentare un potenziale pericolo per la salute umana”
La regione Veneto dopo aver riscontrato
la presenza di questi inquinanti ha richiesto il supporto tecnico
-scientifico del Ministero dell’ambiente e fissato dei limiti provvisori
per il PFOA (Acido perfluorottanoico) pari a 0,5 microgrammi/litro, e
di 0,03 microgrammi/litro per il PFOS (Acido perfluoroottansolfonico).
Oltre
a questo si sono definite misure di emergenza per i gestori del ciclo
idrico che hanno installato filtri specifici a carbone attivo per la
rimozione di questi inquinanti.
E’ stato attivato un sistema di
sorveglianza analitica, formazione per il personale sanitario e tecnico,
un regolamento per l’utilizzo dei pozzi privati ad uso potabile. I
cittadini che utilizzano pozzi, sia per uso potabile che per
preparazione di alimenti devono ricercare la presenza di PFAS nelle
acque prelevate allo scopo.
E’ stato attuato anche il biomonitoraggio
della popolazione residente che si è concluso a fine 2016 mostrando
livelli significativi di PFAS nel sangue di circa 60.000 persone.
L’ARPA del Veneto ha effettuato
misurazioni che hanno riguardato falde ed acque superficiali per
definire l’area interessata dal problema di inquinamento e definirne la
provenienza.
Individuando come la contaminazione
prevalente fosse dovuta agli scarichi di uno stabilimento chimico
situato a Trissino in provincia di Vicenza.
Questo il preambolo generale. Ma ci sono
alcune riflessioni da fare. A distanza di decenni lascia quantomeno
sgomenti verificare che ancora oggi un problema di inquinamento
ambientale sia dovuto ad una gestione scorretta dei reflui di
lavorazione di un’industria.
Non
è accettabile questo, perché negli anni abbiamo già dovuto assistere ad
altri casi emblematici, casi che ormai sono parte della letteratura.
Seveso, Priolo, Marghera, Casale Monferrato, Brescia. E ne dimentico
certamente altri. Questo del Veneto sarà l’ennesimo caso. Occorre
trovare l’equilibrio. La riconversione dei processi produttivi
nell’industria chimica è ormai un’esigenza non rimandabile
ulteriormente. Allo stesso tempo non è alla chimica come scienza che si
deve imputare tout court il verificarsi di questi episodi, bensì ad una
visione alterata di quelli che sono i nostri bisogni reali. L’azienda
ritenuta responsabile dell’inquinamento sta affrontando il processo di
riconversione. E questo come è probabile comporterà un percorso
probabilmente lungo e tormentato. Non sempre le esigenze di occupazione e
tutela ambientale seguono gli stessi percorsi.
Questo
episodio deve fare riflettere anche per quanto riguarda la gestione del
ciclo idrico. L’Italia deve investire e formare tecnici. Occorre dare
una forma ad una gestione che al momento è ancora decisamente troppo
frammentata e dispersa. Questo non significa, come spesso molti temono,
innescare un processo contrario alla volontà espressa nel referendum del
2011. Ma mettere in grado le varie realtà territoriali di gestire
emergenze che (purtroppo) potrebbero anche ripetersi.
Sono necessarie sinergie tra tutti i soggetti coinvolti (ISS, ARPA, Gestori del ciclo idrico).
L’ultima
riflessione è molto personale, ma la ritengo ugualmente importante.
Niente di tutto questo potrà prescindere da una più capillare educazione
scientifica ed ambientale. Che riguardi non solo chi sta seguendo un
corso di studi, ma in generale la pubblica opinione. Un cittadino
compiutamente e doverosamente informato è un cittadino che può operare
scelte più consapevoli. La spinta al cambiamento, alla riconversione dei
processi produttivi parte anche da questo.
Nota del post master. Si stima che nel
periodo 1970-2002 siano state utilizzate nel mondo 96.000 tonnellate di
POSF (perfluorooctanesulphonyl fluoride) con emissioni globali di POSF
tra 650 e 2.600 ton e di 6.5-130 ton di PFOS. La maggior parte del
rilascio avviene in acqua (98%) e il rimanente in aria. Non sono
biodegradabili in impianti a fanghi attivi.
Chimicamente alla moda. 2.
(la prima parte di questo post è pubblicata qui).
Marino Melissano
(seconda parte)
Coloranti azoici
Detti anche azocoloranti, derivano
formalmente dall’azobenzene. Presentano colori brillanti e buoni
requisiti tintoriali anche se, rispetto ad altri coloranti, sono meno
stabili alla luce, al lavaggio e al candeggio.
I coloranti Azoici sono composti
caratterizzati dalla presenza di uno o più gruppi azoici (-N=N-), in
genere in numero da 1 a 4 , legati a radicali fenilici o naftilici , che
sono generalmente sostituiti con alcune combinazioni di gruppi
funzionali che includono: ammine (-NH2), cloruri (-Cl), idrossili (-OH), metili (-CH3), nitro (-NO2), acido solfonico sali di sodio (-SO3–Na+.
I coloranti azoici , sintetizzati a partire da composti aromatici non
sono basici in soluzione acquosa (a causa della presenza dei legami N=N,
che riducono la possibilità di avere elettroni spaiati sugli atomi di
azoto) , sono facilmente ridotti a idrazine e ammine primarie,
funzionando come buoni ossidanti.
Di conseguenza i coloranti azoici possono
rilasciare una o più ammine aromatiche che sono cancerogene in
concentrazioni superiori a 30 mg/kg (0,003 % in peso). Per questo, non
possono essere utilizzati come coloranti di articoli tessili e di cuoio
che potrebbero entrare in contatto diretto e prolungato con la pelle.
A questo proposito esiste una delle
restrizioni cogenti più conosciute. E’ stata introdotta negli anni ’90 e
recepita dalla Direttiva CE 2002/61, che, oggi, è stata sostituita dal
Regolamento REACH ed è stata recepita anche dalla legislazione di molti
Paesi extra UE (Cina ad esempio).
Le ammine cancerogene previste sono 22.
I metodi da seguire per l’esecuzione
delle prove sono ben definiti, (EN 14362-1 e EN 14362-3), eppure queste
sostanze sono ancora usate, soprattutto per il loro basso costo. Siveda
per esempio:
E’ interessante notare che in un studio analogo a quello di GP (European survey on the presence of banned azodyes in textiles)
condotto nel laboratorio ISPRA per l’UE sullo specifico problema dei
colorati azoici e dei loro derivati cancerogeni nei tessuti nel 2008 il
numero di campioni esaminati non fu diverso come ordine di grandezza da
quelli esaminati dallo studio GP e anche i risultati non si distaccarono
troppo. Vale la pena di dire che in quel caso ci fu forse più
attenzione ai dettagli statistici del problema, come si può evincere
dall’abstract del lavoro che accludiamo in nota (Nota ISPRA 2008[i], lavoro intero scaricabile qui).
Anche nel caso dei coloranti azoici oltre
il contatto diretto esiste la possibilità dell’assorbimento tramite la
catena alimentare, la qual cosa indica anche un potenziale danno
ambientale oltre che il ritorno “sistemico” verso la specie umana, che
come super-super-predatore diventa così il collettore di tutto ciò che
essa medesima scarica nell’ambiente. Questo fenomeno per i coloranti
azoici è documentato in un recente testo.
The discharge of azo dyes into water
bodies presents human and ecological risks, since both the original dyes
and their biotransformation products can show toxic effects, mainly
causing DNA damage. Azo dyes are widely used by different industries,
and part of the dyes used for coloring purposes is discharged into the
environment. The azo dyes constitute an important class of environmental
mutagens, and hence the development of non- genotoxic dyes and
investment in research to find effective treatments for effluents and
drinking water is required, in order to avoid environmental and human
exposure to these compounds and prevent the deleterious effects they can
have on humans and aquatic organisms.
Nella ricerca GP gli azoici sono stati trovati in un numero molto limitato di casi; le immmagini e il marchio implicato in questo caso si possono trovare nel report originale.
Formaldeide
Gas incolore, dall’odore penetrante, ha
la proprietà di uccidere batteri, funghi e virus, perciò viene
largamente impiegato come disinfettante e conservante in moltissime
produzioni industriali: mobili, vernici, truciolati, colle, detersivi,
materiali isolanti. E’, inoltre, utilizzata come agente reticolante per
le paste da stampa e come ausiliario nella concia delle pelli.
Essendo un gas, viene rilasciato
nell’aria, provocando irritazioni e bruciori a occhi, naso e gola, ma
anche cefalee, stanchezza e malessere generale. È solubile nell’acqua,
perciò i lavaggi ne riducono la concentrazione fino alla totale
scomparsa.
In campo tessile, la formaldeide può
essere rilasciata dalle resine utilizzate per conferire agli abiti le
caratteristiche antipiega. Negli anni più recenti, a livello europeo,
tale rischio è estremamente contenuto, grazie ai progressi
dell’industria chimica, che hanno consentito un’ottimizzazione
consistente delle resine che, se correttamente applicate, sono
definibili a “zero contenuto di formaldeide”.
Il primo paese a livello mondiale che ha
posto restrizioni sul valore di formaldeide rilasciata da un tessuto è
stato il Giappone (1973 – legge 112) che, per oggetti destinati ai
bambini, ne impone di fatto l’assenza.
Gradualmente anche i paesi europei si
sono adeguati e, pur con limiti diversi, esistono leggi che ne
regolamentano l’utilizzo nella maggior parte di essi (Germania, Austria,
Olanda, Francia, Norvegia, Finlandia, Slovenia, Repubblica Ceca).
Il metodo più noto per la determinazione
della formaldeide nei tessuti trattati è il metodo giapponese JIS L
1041. Esiste tuttavia una norma europea sostanzialmente equivalente: la
EN ISO 14184-1, mentre per il cuoio si applicano i metodi della serie EN
ISO 17226.
A livello di Unione Europea non esiste
tuttavia un divieto o una restrizione specifica applicata al settore
tessile, neppure in ambito REACH. Le restrizioni sono invece previste da
alcuni marchi volontari, che, di fatto, si rifanno alla legge
giapponese prevedendo in genere come limiti massimi:
da 16 a 20 mg/kg (bambini); 75 mg/kg (per prodotti a contatto con la pelle); 150- 300 mg/kg
(per prodotti non a contatto con la pelle).
Comunque la formaldeide, che si usa fin
dal 1923, è considerata a basso livello di concentrazione se presente
nel prodotto finale a meno di 100ppm, ossia meno di 100mg/kg di tessuto.
Anche questa sostanza e’ stata trovata in alcuni jeans (https://pubs.acs.org/cen/government/88/8836gov2.html) ma non nei test effettuati da Green Peace.
Metalli pesanti
Cadmio, Piombo, Mercurio, Cromo(VI), Nichel.
I metalli pesanti come cadmio, piombo e mercurio vengono utilizzati in
alcuni coloranti e pigmenti. Questi metalli possono accumularsi nel
corpo per molto tempo e sono altamente tossici, con effetti
irreversibili, inclusi i danni al sistema nervoso (Piombo e Mercurio) o
al fegato (Cadmio).
Il Cadmio è anche un noto cancerogeno.
Il Cromo(VI) che è utilizzato in alcuni
processi tessili e conciari dell’industria calzaturiera è fortemente
tossico, anche a basse concentrazioni, per molti organismi acquatici.
Qualsiasi articolo in cuoio, o parte in cuoio di un articolo, che entri a
contatto diretto o indiretto con la pelle non dovrà contenere Cromo(VI)
in concentrazione superiore o uguale a 3 mg/kg di materiale “secco”
(0,0003%)perché provoca, tra l’altro, dermatiti, allergie e irritazioni.
La concentrazione massima indicata nel Regolamento REACH coincide con
il limite di rilevabilità del metodo di prova ufficiale, EN ISO 17075.
I composti del Cromo(VI) sono stati valutati dall’IARC come cancerogeni per l’uomo.
Il Nichel rilasciato dai coloranti usati per tingere, è fortemente allergizzante.
Dal primo maggio 2015 l’Ue ha vietato la vendita di scarpe e pelletteria in cui la concentrazione del metallo superi i 3 mg/kg.
Anche Cadmio, Mercurio e Piombo sono
stati classificati come ‘sostanze pericolose prioritarie’ ai sensi della
normativa dell’Unione europea sulle acque e sottoposti a rigorose
restrizioni.
Trovati in biancheria intima, jeans,
maglie da calcio. E’ interessante notare che negli allarmi RAPEX una
quota significativa è relativa all’uso di qualcuno di questi metalli,
specie nei pellami per uso umano. (Infine il Nichel non dimentichiamolo è
un componente delle monete che usiamo tutti i giorni e la sua presenza
in concentrazione superiore a quella che può scatenare dermatiti è stata
denunciata in tempi e luoghi non sospetti (http://www.nature.com/news/2002/020912/full/news020909-9.html))
Perfluorocarburi (PFC)
Composti contenenti in modo preponderante
legami carbonio-fluoro. La loro particolare struttura li rende
idrofobici e lipofobici, ovvero in grado di repellere l’acqua e le
sostanze oleose/grasse
Sono utilizzati per rendere i tessuti e oggetti impermeabili, resistenti all’acqua e resistenti alle macchie.
E’ dimostrato che i PFC sono tossici e bioresistenti. e che un’esposizione
a PFC è correlata a minore peso alla nascita nei neonati, colesterolo
elevato, infiammazione al fegato, indebolimento del sistema immunitario,
tumore del testicolo, obesità
Trovati in tessuti outdoor e per sportivi anche di grandi marche. D’altronde sappiamo che la produzione di questi materiali per i più disparati usi ha avuto un effetto di inquinamento notevole nelle zone di produzione, fra cui alcuni dei nostri distretti industriali (http://corrieredelveneto.corriere.it/veneto/notizie/cronaca/2016/20-aprile-2016/inquinamento-miteni-valori-pfas-superiori-limiti-240327880018.shtml).
Trovati in tessuti outdoor e per sportivi anche di grandi marche. D’altronde sappiamo che la produzione di questi materiali per i più disparati usi ha avuto un effetto di inquinamento notevole nelle zone di produzione, fra cui alcuni dei nostri distretti industriali (http://corrieredelveneto.corriere.it/veneto/notizie/cronaca/2016/20-aprile-2016/inquinamento-miteni-valori-pfas-superiori-limiti-240327880018.shtml).
Abbiamo velocemente tratteggiato la
situazione, ma ovviamente questa descrizione non è completa non solo
perché il mercato evolve ma anche perchè evolve la chimica e cambiano i
metodi di produzione ed analisi e le conoscenze mediche.
Esistono e da molti anni leggi e numerosi protocolli di sicurezza (come Oeko-Tex)
a cui le aziende si attengono, ma dato che nonostante tutto i problemi
ci sono, come abbiamo visto, Altroconsumo, insieme a Greenpeace, ha
chiesto ai marchi d’abbigliamento di andare oltre il Reg. REACH e la
certificazione Oeko-Tex ed eliminare dalla produzione, gradualmente
entro il 2020, tutte le sostanze tossiche.
La campagna Detox di Greenpeace chiede ai
marchi della moda di impegnarsi su base del tutto volontaria
nell’eliminare l’utilizzo di tutte le sostanze pericolose entro il 2020 e
chiede a tutti i loro fornitori, nell’ottica della massima trasparenza,
di rendere pubblici su una piattaforma online indipendente, i dati
relativi allo scarico di inquinanti dalle loro strutture.
Diventa sempre più ampia la lista di
aziende che hanno scelto di sottoscrivere l’impegno Detox, tra cui 35
gruppi della moda e dell’abbigliamento che rappresentano più di 100
marchi, che da soli costituiscono il 15% ,in termini di fatturato, della
produzione tessile mondiale. Ciononostante anche nel nostro paese la
copertura è a macchia di leopardo.
Tra gli aderenti alla campagna ci sono
vari grandi gruppi e marchi internazionali, interi distrettti produttivi
del tessile italiano e il numero cresce di continuo; negli ultimi
giorni per esempio avrete letto sui giornali che il gruppo Gore Fabrics si è impegnato ad eliminare i derivati perfluorurati la cui produzione si è dimostrata ecologicamente nociva.
Trovate la lista delle aziende che hanno sottoscritto l’impegno Detox e il testo dello stesso su https://www.confindustriatoscananord.it/chi-siamo/attivita-e-progetti-speciali/detox
L’iniziativa Detox è del 2011 ed ha catalizzato a sua volta altre iniziative come per esempio ZHDC (Zero Discharge of Hazardous (ZDHC) Programme); è da dire che questa iniziativa va a rilento.
Infatti sebbene esista una lista di prodotti
che sono bannati non dall’uso generale nel procedimento produttivo ma
dall’uso intenzionale, sul sito troviamo scritto ancora oggi:
In 2014, the Programme began
developing a universal set of XML-standards to organise the way key
chemical data should be collected and shared for the benefit of all
stakeholders.
In 2016, the Programme will release
the ZDHC Chemical Registry, an online data sharing portal for chemical
companies to asses a product’s compliance against ZDHC’s MRSL. Read more
on the Chemical Registry here.
Ma sfortunatamente quel link “here” è vuoto.
Per comprendere uno dei limiti di questa
impostazione si può fare riferimento all’uso di NPE che è il più comune
degli alchilfenoletossilati; NPE non è consentito come uso diretto e
questo va benissimo, ma può essere usato in prodotti che lo contengono
come “impurezza” fino ad una concentrazione di 500ppm, ossia 500mg/kg di
prodotto; la concentrazione permessa nel prodotto finale non deve
superare 100ppm (0.01%); è chiaro che esiste una “driving force” per far
diffondere l’impurezza in quantità anche superiori a quelle consentite.
Inoltre se si va a vedere in dettaglio si
trova che la concentrazione massima tollerata per NPE è superiore alla
concentrazione critica micellare (CMC) della sostanza; in pratica il
protocollo (e la legge europea)
consente di usarla ancora come tensioattivo (infatti la CMC di NPE15 è
0.1mM, ossia 22mg/kg (22ppm) contro un limite legale di 100 ppm (0.01%
nella legge europea nel prodotto finale e un limite concesso nel
protocollo ZHDC di 500ppm, quasi 25 volte superiore); per le varie
lunghezze di catena degli etossilati la CMC varia ma è comunque
inferiore a 100ppm!
Non è comunque banale fare un confronto
fra i due approcci, mentre per meglio approfondire i risultati già
ottenuti del progetto Detox si può guardare ai risultati degli scarichi
in alcune zone industriali italiane.
Che cosa possiamo fare, prima di acquistare un capo di moda?
In realtà è necessaria un’attività di
informazione, dalla filiera e al consumatore, sia sulle sostanze
utilizzate e sui relativi rischi potenziali sia sull’attività di
prevenzione che fanno le aziende.
Le fibre artificiali (quelle naturali modificate) e quelle sintetiche (dette anche “man-made“,
sintetizzate dall’uomo), che coprono oggi il 70% dei consumi mondiali
di fibre tessili, arrivano in buona parte dall’Estremo Oriente. Anche in
questo blog si è detto altre volte che il primo produttore chimico
mondiale con una quota del 66%, è la Cina, che esporta in Europa
prodotti meno costosi e a volte già trattati con dei coloranti. Per
questo motivo la semplice richiesta della etichetta “made in Italy”, di
per se, non esclude prodotti confezionati in Italia, ma con tessuti
importati da altri paesi i cui controlli potrebbero essere meno
efficienti.
I vestiti non parlano, non ci raccontano
la loro storia e le sole etichette non ci aiutano nella scelta.
Cerchiamo certificazioni sulla sostenibilità (Oeko-Tex) e smart labels di “Made in colours”, con codice a barre o QR code, che permette di conoscere tutte le sostanze usate nel ciclo produttivo.
Altroconsumo consiglia i marchi che hanno
firmato l’accordo Detox e che si sono classificati Detox leader mentre
altri non lo hanno fatto.
Più in generale:
Evitiamo l’acquisto di indumenti con stampe plastificate ed etichettati come: antiaderente, resistente alle macchie e all’acqua.
- Laviamo i capi prima di indossarli per la prima volta
- Evitiamo di far indossare a bambini e adolescenti capi di dubbia qualità. Se si notano sulla pelle reazioni allergiche imputabili a un capo di abbigliamento, segnaliamolo anche all’associazione Tessile e Salute, che indicherà un laboratorio per far analizzare il capo sospetto.
- Per lo sport ricordiamo che il sudore e il calore favoriscono l’assorbimento delle sostanze rilasciate dai tessuti e potenzialmente dannose per cui massima attenzione.
- Evitiamo indumenti con un’etichetta mancante o contraffatta
- In ultimo ricordiamo che il suggerimento di preferire il cotone bianco per la biancheria potrebbe essere insufficiente (infatti non possiamo escludere che un capo di colore bianco non contenga di per se sostanze potenzialmente dannose e perfino non possiamo escludere trattamenti con sostanze coloranti che esaltino il bianco, in fondo l’occhio non è uno spettrofotometro, pensiamo agli effetti di certi derivati degli stilbeni con proprietà fluorescenti e comunemente usati a questo scopo)
PIU’ ETICA E MENO ESTETICA
L’inversione di tendenza in campo
ambientale non è data solo dall’avvento di prodotti che non siano
dannosi per l’uomo, (così detti verdi), ma forse ancor più dai nostri
comportamenti. E qui sorge ancora la domanda: siamo veramente pronti a
cambiare il nostro stile di vita? Siamo convinti che occorre rinunciare a
qualcosa e, che l’era del consumismo sfrenato è finita?
- Come al solito, siamo degli autodidatti e come tali il percorso è lungo.
In Italia manca un’educazione ambientale,
intesa non solo come rispetto della Natura, ma anche come educazione ad
un futuro migliore, ecologicamente, economicamente e socialmente
sostenibile, in cui ben si inserirebbe il vestire sostenibile.
Questa è la vera sfida su cui ognuno di
noi è chiamato a dare il suo contributo e il ruolo del Chimico sia nei
processi di analisi e di controllo, sia nei processi di sintesi di
sostanze che sostituiscano quelle dannose, è essenziale.
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[i]
Nota ISPRA 2008: A European survey on the presence of banned azodyes in
textiles, in particular textile clothing, produced all over the world
was performed. The selection of fabrics was planned among coloured
textile products, in order to cover as many different types of fibres
and type of garments as possible. The whole population was considered as
target. Samples were bought in 24 Member States of the European Union,
from different sources, with different compositions and various
production countries or areas. Part of them was printed and some were
“easy care” or Oeko-Tex labelled. A total of 116 samples were analysed
with standard method EN 14362-1 (without extraction) and 72 also with
standard method EN 14362-2 (with extraction). Measurements were
performed in duplicate and standard deviations were calculated.
In the case of the method without
extraction, 2.6 % of samples (3 out of 116) intended to be in direct
contact with skin contained over 30 mg/kg of some banned aromatic
amines, which is the limit established by Directive 2002/61/EC. The
highest concentration (434.2 mg/kg) was measured for benzidine. Other
ten samples (8.6 %) contained some prohibited aromatic amines in levels
lower than the limit. Comparison between method EN 14362-1 and a
slightly modified version of it showed that generally the standard
method gave lower results than the ones obtained with the modified one.
Considering the method with extraction
from fibres, only one sample T188 contained some banned aromatic amines,
one of which, benzidine, in concentration of 39.0 mg/kg. Several not
carcinogenic aromatic amines, different from the ones listed in
Directive 2002/61/EC, were detected in 21 samples. They were quantified
based on calibration curves of some banned aromatic amines of similar
structure. Their concentration was often higher than 30 mg/kg and in
certain cases even higher than 100 mg/kg. Colour fastness to washing,
perspiration and saliva was evaluated for the samples which contained
some forbidden aromatic amines, in order to estimate the tendency of
dyes to migrate. Results showed a very high colour fastness in terms of
colour degradation, except for some samples including the two positive
ones T188 and T292. On the contrary, colour fastness in terms of
staining was not high, in particular on polyamide. Staining was
generally higher to washing at 60°C than to saliva at 37°C; the lowest
staining was obtained to perspiration at 37°C. Almost no differences
were observed among results obtained with acid and basic saliva or with
acid and basic perspiration simulants. The three positive samples T148,
T188 and T292 were among the worst specimens concerning both colour
degradation and staining.
Following the recommendations of the
European Chemical Bureau’s Technical Guidance Document, data were used
to estimate adult and child dermal exposure to carcinogenic aromatic
amines. From data obtained with the EN-14362-1 standard method and the
modified one, the maximum dermal uptakes evaluated in the case of a
child were 8.2 and 11.8 mg/kg bw and, in the case of an adult, 3.1 and
4.4 mg/kg bw respectively.